I sequestri e le retate preoccupano non poco i gestori di negozi che vendono cannabis light così come i coltivatori: cosa sta succedendo in questo mondo? La legge può tutelare il commercio della canapa light o davvero questo sarebbe diventato improvvisamente illegale in base ad una recente sentenza della Corte di Cassazione? L’avvocato Carlo Alberto Zaina cerca di fare chiarezza con un post su Facebook che riportiamo interamente
La notizia di carattere giurisprudenziale che segue – ed in corso di verifica – sta suscitando forte apprensione negli ambienti dell’industria della canapa.
Se il contenuto della notizia in questione risponde a verità, ritengo che si debba fare estrema chiarezza ed evitare precipitose conclusioni.
1) In primo luogo appare estremamente importante e decisivo che la Corte di Cassazione affermi che la l. 242/2016 consenta anche la commercializzazione dei prodotti della coltivazione.
Si tratta di una conclusione cui il sottoscritto era pervenuto da tempo sulla base di elementi testuali e logici, già esposti in varie pubblicazioni.
Per quanto attiene alla prima condizione nulla quaestio, in quanto si tratta di un dato pacifico.2) In secondo luogo la seconda condizione fissata dalla S.C. suscita, però, rilevanti perplessità.
Circoscrivere alla sola soglia dello 0,2% di THC la liceità della commercializzazione dei prodotti della coltivazione di cannabis comporta alcuni negativi significati.
a) In primis, si disapplica ingiustificatamente il limite dello 0,6% stabilito dall’art. 4 L. 242/2016.
Si deve, infatti, osservare che il legislatore prevedendo questo limite non lo ha affatto circoscritto al coltivatore (a differenza di quello sancito dall’art. 4 co. 7), posto che non ha abbinato al raggiungimento di tale limite alcuna tipologia di sanzione .
In buona sostanza, se si commercializza un prodotto con THC > a 0,2% ma < a 0,6% non è previsto legislativamente alcun tipo di punizione nè per il coltivatore (nè per il commerciante).
Limitare la liceità del commercio a prodotti < a 0,2%, invero, pone sia il problema di quale divenga la effettiva destinazione di tutte quelle sostanze che superino questa soglia, (pur rimanendo entro lo 0,6%), sia il tema del fondamento e della ragione di una simile rilevante deroga.
La L. 242/2016 non prevedendo nessuna forma punitiva (nè penale, nè amministrativa) induce testualmente a ritenere legittimo il prodotto che rientri nello 0,6% di THC sia a livello coltivativo, che commerciale.
La sentenza in questione non pare, invece, affrontare seriamente, anzi pare eludere, un problema così nodale ci si deve domandare, pertanto, opinando con il Collegio, quale sarà la destinazione di un prodotto ccn THC compreso fra 0,2% e 0,6% ?La legge non lo dice e la SC, a propria volta non potendo indicare strade che normativamente non sono previste, rimane silente, aumentando dubbi e confusione.
Dunque la sentenza lascia pesantemente irrisolto il problema centrale e legittima, invece, con il proprio silenzio implicitamente la tesi della legalità del prodotto con THC sino a 0,6% e della sua vendita;
b) In secundis non tiene conto che ai fini penali, il limite fissato dalla Cassazione stessa, convenzionalmente con la letteratura scientifica, recependo le raccomandazioni dell’ONU del 1987, è pari allo 0,5% di THC.
Dunque ove si seguisse pedissequamente ed acriticamente la pronunzia il cui dispositivo si commenta, si verrebbe a creare un sorta di “terra di nessuno” compresa fra 0,2% e 0,5%, che astrattamente si sottrarrebbe a rilievi penali, ma che, invece, stando alla SC parrebbe rientrare in ambiti di sanzionabilità, addirittura penale ex dpr 309/90. Si tratta, dunque, di un ulteriore elemento di incertezza derivante da una valutazione che globalmente pare non approfondita;
c) In tertis non considera che altri paesi UE (Francia e Austria ad es.) prevedono un limite di deroga fissato nella misura dello 0,3% di THC.
Quid iuris, quindi, in presenza di prodotti intracomunitari e come tali legali?
Si tratterebbe dell’ennesimo motivo di gravissima incertezza, che introdurrebbe problematiche di coordinamento con il diritto comunitario e con quello internazionale.3) In terzo luogo, la Corte sottolinea la necessità di verificare, ai fini della sussistenza del reato per il commerciante, la idoneità della percentuale di THC a produrre un effetto drogante rilevabile.
Si tratta anche in questo caso di una valutazione estremamente varia e non sempre omogenea e suscettibile di creare situazioni contraddittorie ed incerte.
D’altronde sovente capita che gli stessi consulenti tossicologici non concordano su parametri precisi idonei a stabilire l’effettiva psicoattività concreta della sostanza.
Ricordo che normativamente è stato elaborato il concetto di DOSE MEDIA SINGOLA (per la cannabis pari a mg. 25) per potere identificare un quantum di sostanza che possa avere rilevanza stupefacente penale certa.
Dunque la Corte avrebbe dovuto semmai incentrare la soluzione prendendo questo parametro come decisivo.Vi è, inoltre, da osservare che se si dovesse seguire pedissequamente il principio accennato dalla Corte, si dovrebbe ritenere che la stragrande maggioranza dei prodotti derivati dalla canapa (soprattutto quelli destinati alla bio-edilizia, oppure i semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attivita’ artigianali di diversi settori, compreso quello energetico od ancora il materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati) non potrebbero venire commercializzati, atteso l’enorme rischio di una positività a controlli sulla psicoattività potenziale degli stessi.
** ** **
Deriva da questo primo e superficiale esame che la Corte, dopo avere sdoganato il commercio, deve, però, meglio approfondire il tema relativo, che appare allo stato ancora molto poco compreso e spiegato.