Era il 15 febbraio quando la Corte costituzionale con il suo Presidente Giuliano Amato negava la possibilità agli italiani di esprimersi sul Referendum per la Cannabis legale, che avrebbe potuto invertire finalmente la rotta nel nostro paese, vittima del pensiero proibizionista che ha contaminato le nostre istituzioni. Molto è stato detto in merito a quella sentenza, per noi anacronistica anche rispetto alle valide memorie difensive presentate alla Corte.
La decisione deve farci riflettere, ma non deve farci smettere di trovare vie e soluzioni per modificare le politiche sulle droghe in Italia, e di farlo proprio adesso che gli Stati Uniti – un tempo culla del proibizionismo – stanno facendo passi importanti a livello federale dopo che molti dei suoi Stati hanno legalizzato il consumo di cannabis. Alcuni solo a scopo terapeutico, altri anche a scopo ricreativo.
E allora cosa resta a questo paese, ora che in Commissione Giustizia alla Camera il DDL per la coltivazione di 4 piantine è fermo e che la Lega tenta al Senato, sempre in Commissione Giustizia, di inasprire le pene per i reati relativi alle sostanze stupefacenti, cannabis inclusa?
Ecco, quello che ci resta è “la politica dal basso”: lavorare all’interno delle comunità cittadine per cambiare mentalità e modificare approcci di governo, tramite l’attivazione di drug policies locali, come già sperimentato ad inizio degli anni ‘90 a livello europeo.
Nel 1990, infatti, si tenne la conferenza internazionale “European Cities at the Center of Illegal Trade Drugs”, promossa dal Consiglio comunale di Francoforte, da cui nascerà la rete di municipalità ECDP – European cities for drug policy – dove si tracciava la linea verso un futuro differente. Sono molti i punti interessanti usciti da quel documento, ma il punto saliente è relativo alla netta presa di coscienza per cui “i tentativi di eliminare le droghe dalle nostre città sono falliti”, rigettando le modalità repressive.
Era, appunto, il 1990. Oggi, nel 2022 e soprattutto in Italia, poche cose sono cambiate, e i pochi passi in avanti sono avvenuti più per mano giuridica, dei tribunali (pensiamo alle numerose sentenze della Corte di Cassazione che lascerebbero la possibilità di coltivare per uso personale una modica quantità di cannabis, se solo ci fosse una legge) che per mano politica, del Parlamento.
In questo scenario bloccato quasi graniticamente, più di un anno fa come Radicali Italiani presentammo il ‘Manifesto delle città democratiche e antiproibizioniste’, ovvero un pacchetto di delibere di iniziativa popolare volte a trattare il tema delle sostanze mettendo al centro il ruolo delle città, aprendo ad interlocuzioni tra municipi e Governo sul tema cannabis e avviando progetti locali di riduzione del danno.
Il lavoro va avanti a livello territoriale, insieme alle mobilitazioni, come quella che abbiamo messo in campo insieme al consigliere comunale Daniele Nahum a Milano qualche settimana fa e per cui fumare una canna di fronte a Palazzo Marino diventa oggi presa di posizione concreta contro uno stigma. Ormai superato anche dagli italiani, dicono i sondaggi.
Dobbiamo quindi unirci a partire dalle municipalità per far sì che a livello locale si passi da un approccio repressivo ad un approccio sociale: d’altronde sono i cittadini e le cittadine delle città le prime persone a sperimentare la repressione sulla loro pelle.
Proprio all’interno della Risoluzione di Francoforte del 1990 c’era scritto: «La gran parte dei consumatori vive nelle città o nelle città si reca perché lì c’è il mercato, la scena della droga e il sostegno ai consumatori. Per questo le città vivono al massimo i problemi correlati, ma al tempo stesso la loro influenza sulla politica sulla droga è limitata e in contraddizione con il peso che le città devono portare».
Fu il professor Peter Cohen, dell’Università di Amsterdam e studioso delle sostanze e delle drug policies, a dar forza tramite le sue ricerche all’idea che anche le municipalità dovessero avere un ruolo chiave: “La riforma della politica sulle droghe prima sperimenta e poi differenzia e si articola progressivamente a livello locale. C’è riforma solo laddove i cambiamenti si confrontano con le originali specificità dei contesti e dei vincoli locali. Persino sotto il più brutale dei regimi proibizionisti, a livello locale i riformatori possono essere la voce di quanti chiedono un cambiamento. Dai quartieri, dalle città, dalle comunità locali e dalle regioni, la riforma può, poi e forse, arrivare alle capitali nazionali e internazionali” scriveva nel 2003 all’interno dell’International Journal of Drug policy.
Il primo passo è quello di riconoscere la diversità tra la cannabis e le altre sostanze, e questo riconoscimento può arrivare in modo pragmatico anche dalle istituzioni locali tramite accordi o protocolli. Un esempio: a Copenaghen, in Danimarca, il consiglio cittadino ha ripetutamente proposto di far partire un progetto per la produzione, distribuzione e possesso di cannabis per dividere il mercato delle sostanze e tenere lontani i ragazzi più giovani dalle piazze di spaccio. Tentativi di questo tipo ci sono stati anche in alcuni Länder tedeschi e in alcune città spagnole. Questo è un tema talmente importante, che tocca così tanti aspetti della vita quotidiana che non può fare a meno di una presa di coscienza da parte di tutte le più importanti città italiane: fare rete, unirsi.
Far in modo che finalmente la politica prenda una posizione chiara e netta.
Giulia Crivellini, Avvocata e Tesoriera di Radicali taliani
Federica Valcauda, Policy advisor e membro del Comitato di Radicali Italiani