Come l’origine dell’uomo è passata attraverso la condizione animale, così la chiave della comprensione dell’uomo passa attraverso la conoscenza degli animali.
(Konrad Lorenz 1903 – 1989, zoologo, etologo e filosofo austriaco.
Correva l’anno 1871, Paolo Mantegazza (1831 – 1910), antropologo e fisiologo, riportava nel suo libro “Elementi di igiene” come gli “alimenti nervosi” siano quasi in esclusiva impiegati dal genere umano. “Alimenti nervosi” è la definizione di -droghe- più comune nel diciannovesimo secolo.
Scrisse Mantegazza: “Sono quasi esclusivamente usati dall’uomo, che gode della vita nervosa più complessa di tutti gli altri animali. Fra questi, quelli che più si avvicinano a noi per l’intelligenza, possono trovarli piacevoli quando li imparano a conoscere nello stato di addomesticamento. Le scimmie, i pappagalli, i cani, amano spesso con trasporto il caffè ed il tè; ma in natura non sanno trovarli con l’istinto.”
In una nota a piè di pagina però aggiunse, in parte in contraddizione con quanto appena sostenuto: “I progressi della scienza vanno togliendo molto valore a quest’ultima affermazione troppo recisa. Forse neppure l’uso degli “alimenti nervosi” è carattere umano: i gatti mangiano il maro e la valeriana non certo per nutrirsi ma per inebriarsi… Darwin vide parecchie volte scimmie fumare con piacere e Brehm ci assicura che nel nord est dell’Africa gli indigeni catturano le scimmie offrendo loro vasi pieni di birra molto forte che le inebria.”
Mantegazza è il primo a scrivere in ambito accademico di animali e droghe, ma esattamente che cos’è una droga? L’etimologia è incerta, le più accreditate fanno risalire il vocabolo al termine francese drogue, o all’olandese droog ‘secco’, riferito alle sostanze vegetali essiccate (sec. XVI.) Una droga in ambito alimentare è una sostanza vegetale aromatica che serve a dar sapore a cibo e bevande, ad esempio le spezie. In ambito farmacologico ogni estratto di origine vegetale contenente uno o più principi biologicamente attivi. Alcol, Cannabis, di nuovo le spezie, caffè, tè sono tutte letteralmente droghe. Il tabù della droga rende difficile, anche agli addetti ai lavori, osservare con gli occhiali della scienza il comportamento degli animali che si drogano, non è quindi un argomento particolarmente semplice e divulgativo. Per definire un comportamento “drogato” occorre un’ alterazione dello stesso, indotta da un principio attivo di origine biologica, questa alterazione del comportamento e della percezione, ricercato dall’uomo fin dalla notte dei tempi, facendo fermentare la frutta, ad esempio, per ottenere alcol, è comune dagli insetti ai mammiferi, uccelli ecc.
Gli elefanti africani (Loxodonta africana), sono ghiotti dei frutti di diverse specie di palme, soprattutto dei generi Hyphanene, Sclerocarya, Borassus…
La particolarità dei frutti di questi generi di palme è che, una volta maturi, fermentano molto velocemente. Complice il clima caldo, la fermentazione produce alcol addirittura mentre i frutti sono ancora appesi all’albero, fino ad una concentrazione media di alcol etilico di circa il 7%. La fermentazione del frutto ingerito continua nell’apparato digerente, generando assorbimento di ulteriore alcol. Gli elefanti si ubriacano, e non in maniera accidentale. Un gruppo di elefanti percorre circa 10 km al giorno per alimentarsi, ma sono stati osservati e documentati esemplari che si staccano dal branco e percorrono anche 30 km per raggiungere questa tipologia di frutti in località a loro note.
Alcuni ricercatori non condividono questa tesi, ma si tratta per lo più di congetture speculative, retaggio culturale indotto dal tabù droga, nemmeno gli scienziati sono immuni alle fallacie logiche indotte dal clima culturale di demonizzazione.
Gli elefanti inebriati manifestano comportamenti come sobbalzare di fronte a suoni insoliti, divengono iper eccitati, si impauriscono facilmente e in alcuni casi cadono al suolo in una specie di stato letargico. Anche gli elefanti indiani (Elephas maximus) del Bengala o dell’Indonesia amano i frutti fermentati, in particolare quelli del durian. Nel III secolo d.c. Eliano riportò l’impiego bellico di elefanti ubriacati a questo scopo. Nel 1985 un branco di elefanti indiani, nel Bengala fece irruzione in un laboratorio clandestino che produceva alcol dove bevvero grosse quantità di malto distillato. Il durian è il frutto di diverse specie arboree appartenenti al genere Durio. Ci sono oltre 300 varietà di Durio di cui almeno 9 producono frutti commestibili e potenzialmente alcolici. Scimmie, scimmie antropomorfe come gli oranghi (Pongo sp.), volpi volanti (grandi pipistrelli frugivori) si nutrono di questo frutto, che, grazie alla fermentazione e alla relativa produzione di alcol etilico, dona loro effetti inebrianti.
Anche i felidi, dalle tigri ai gatti domestici, si inebriano ingerendo o masticando foglie di determinate erbe, il caso più noto ed eclatante è quello del gatto domestico e del suo psicoattivo preferito: la Nepeta cataria, volgarmente detta “erba gatta” (diverse piante vengono chiamate o vendute come “erba gatta”, quella giusta è la Nepeta). Questa pianta appartiene alle “piante pioniere”, ovvero quelle piante che per prime colonizzano ambienti ruderali, come le scarpate o gli incolti, piante pioniere sono ad esempio le ortiche o la camomilla. La molecola psicoattiva per i gatti è presente sia sulle foglie, che sul fusto e sulle radici, oltre che nelle inflorescenze della nepeta. Spesso si trovano nei “pet-shop” bustine di cotone con all’interno la nepeta sminuzzata. Albertus Magnus fa riferimento alla passione dei gatti per la nepeta nel 1200 ed è la prima fonte storica. John Gerard, nel suo erbario del 1633 scrive a riguardo:
“I gatti ne sono deliziati; poiché il suo odore è così piacevole per loro ch’essi vi si fregano il corpo, e ne mangiano anche i rami e le foglie molto avidamente.”
Le capre, fra gli animali domestici, sembrano essere le più attratte da ogni tipo di droga. In Yemen e in Etiopia, una leggenda narra, in diverse varianti, la scoperta delle proprietà del caffè da parte dell’uomo, grazie alle capre che se nutrivano diventando iper attive e scontrose, a tal punto che un pastore volle provarne l’effetto scoprendo le caratteristiche psicoattive del caffè. Naturalmente questa narrazione della scoperta del caffè è una leggenda, la passione che ne hanno le capre no. Sempre dalle parti dello Yemen le capre vanno matte per il Khat un arbusto coltivato che gli dona euforia a tal punto che quando lo reperiscono non vogliono mangiare altro, lo sanno bene i pastori yemeniti che quando cercano di allontanarle dalle piantagioni rischiano di finire incornati. In America è il “fagiolo del mescal” (Sophora secundiflora) a far impazzire le capre, è allucinogeno, queste lo mangiano avidamente fino a crollare al suolo. Quando si rialzano tornano a mangiarlo. Nei pascoli Alpini invece è il fungo Psylocibe semilanceata ad essere particolarmente ricercato dai caprini domestici e non.
Per rimanere in tema funghi: l’Amanita muscaria, inconfondibile con il famoso cappello rosso a pois bianchi – si chiama muscaria proprio perché attira le mosche- con gli effetti psicotropi che possiede le “sballa” fino a farle cadere zampe all’aria come fossero morte, ma solo per pochi minuti. In Trentino è consumata anche dagli umani, previa rimozione della cuticola rossa e bianca responsabile degli effetti allucinogeni.
Uno dei fenomeni più particolari nel rapporto animali – droghe è quello delle vacche, come le capre sono animali domestici, quindi selezioni fatte dall’uomo, non sono specie che esistono in natura, di conseguenza i loro comportamenti non sono validi dal punto di vista strettamente naturalistico, ovvero sono frutto non solo dell’evoluzione e della coevoluzione con la nostra specie, ma anche della selezione artificiale. Fatto sta che nei pascoli nord americani crescono diverse specie di locoweed (erba pazza), particolarmente psicoattive per i bovini. Le vacche imparano velocemente a distinguerle e vogliono mangiare solo quelle, iniziano quindi un percorso che porta al dimagrimento e all’aggressività, in maniera simile a certi alcolisti. Questo fenomeno è definito in veterinaria locoismo, dallo spagnolo loco: pazzo. Oltre ai bovini è stato osservato nei cavalli, nei polli e negli animali da cortile in genere. Gli individui che la mangiano, la prima volta può essere casuale, diventano ricercatori e consumatori abituali. Nonostante gli sforzi degli allevatori per sradicare dai pascoli queste “erbe” in alcuni casi è necessario l’isolamento e l’intervento veterinario.
Gli esempi di consumo di psicoattivi nel mondo animale sono infiniti, una troupe della BBC ha recentemente documentato un caso in cui alcuni delfini si passano un pesce palla per assumerne il veleno emesso per difesa, in piccole quantità questa sostanza è un potente psicotropo. E’ evidente nelle riprese di “Dolphins: Spy in the po” che i delfini si passano con attenzione il pesce palla, tenendolo per la coda. E’ chiaro che non vogliono mangiarlo o ferirlo, le conseguenze di questo trattamento non lasciano dubbi: i cetacei rimangano estraniati con la pancia verso la superficie guardano i loro riflessi muovendosi quasi come fossero in trance.
Per concludere, il fenomeno delle droghe non appartiene certamente al “pensiero occidentale”, ma è una “pulsione”, un’attrazione, una fenomenologia che riguarda moltissime specie oltre la nostra. Le motivazioni sono complesse e ancora ad oggi non sufficientemente studiate per offrire una risposta certa. Perché molte specie si drogano?
Perché ci droghiamo? Tolstoy (1828 – 1910) scrisse: “La causa dell’universale diffusione dell’hashish, dell’oppio, del vino, del tabacco, è solamente nel bisogno di nascondere a se stessi le indicazioni dateci dalla coscienza.” Giorgio Samorini, dal cui lavoro di ricerca è stato tratto questo articolo ribatte: “In realtà è il nostro modo di pensare e assumere la droga a essere degenerato, perché invece, storicamente, il motivo fondante dell’uso delle droghe risiede nell’intenzione di conseguire una maggiore comprensione della realtà, non di fuggirla. Tanto è vero che oltre a noi, e meglio di noi, si drogano gli animali, gli antichi e le società tribali.”
Per saperne di più e per le fonti: “Animali che si drogano”
ISBN 978-88-97109-30-3 – Giorgio Samorini, 2013, Shake Edizioni (Milano)