Lo sappiamo bene, Facebook è diventato sempre di più lo spazio pubblico, in cui condividiamo relazioni e informazioni. Ci sfugge però il più delle volte che stiamo parlando di un bellissimo parco giochi privato, in cui non solo paghiamo il biglietto d’ingresso (i nostri dati) ma dobbiamo sottostare alle regole che non abbiamo contribuito a scrivere e che molto spesso risultano incomprensibili. Per esempio, su quello che può o non può essere pubblicato, o su quello che può o non può essere sponsorizzato. Partiamo da un episodio recente. Qualche tempo fa il social media manager di Salvini, Luca Morisi, ha pubblicato una foto del leader della Lega con un fucile automatico e un messaggio abbastanza minaccioso. Migliaia di utenti hanno segnalato la foto, ma Facebook ha deciso di non rimuovere quel contenuto perché non violava gli standard di comunità. Decisione abbastanza discutibile, sicuramente presa perché quel contenuto è stato considerato ‘politico’ e la sua rimozione sarebbe stata considerata censura.
Ma nello stesso periodo è capitato a molti utenti di essere bloccati o sanzionati con giorni o settimane di sospensione dalla piattaforma, per il semplice fatto di aver condiviso la copertina di uno dei più celebri album dei Led Zeppelin, ‘House of the Holy’, censurata dalla piattaforma social per la presenza di immagini di bambini nudi. Dopo numerose proteste, raccolte e rilanciate dal sito web Valigia Blu, Facebook ha fatto dietrofront, ammettendo l’errore visto che quella immagine ha una chiara valenza artistica.
Valigia Blu ha commentato così la vicenda: ‘quando ci si trova davanti a un “potente” è altrettanto evidente un trattamento di riguardo. Una specie di luogo dell’imbarazzo che vede la piattaforma in difficoltà nella gestione dei contenuti di odio o di disinformazione, dove paradossalmente chi ha più potere e influenza sul dibattito pubblico e sulle dinamiche della società (e quindi ha anche maggiori responsabilità) viene trattato in maniera più soft rispetto ai contenuti e ai messaggi che veicola e i termini di servizio, le policy della piattaforma, sono applicate in maniera meno stringente, più morbida’.
Ma veniamo a un caso che ci interessa di più. Fare pubblicità alla cannabis light sulle piattaforme social è praticamente impossibile. La parola dello scandalo è cannabis, tanto che non solo i derivati, ma anche tutto quello che ha a che fare con la canapa subisce questa sorta di censura. Insomma, Salvini con una pistola su Facebook ci può stare, la pubblicità a lenzuola di canapa no. Eppure, la sede legale delle principali piattaforme social è in California, lo stato più liberal e pionieristico nella sperimentazione dei prodotti della cannabis e nella sua legalizzazione. Viene il dubbio, che queste piattaforme non vogliano urtare la sensibilità ‘politiche’ delle loro community che ormai hanno raggiunto oltre 2 miliardi di utenti. Altrimenti come si spiegherebbero che la cannabis non può essere sponsorizzata, mentre le bevande alcoliche sì?
Su molti siti web si trovano trucchi e suggerimenti per aggirare l’ostacolo dell’algoritmo censorio che vuole penalizzare la cannabis. Ma forse c’è una luce in fondo al tunnel. Sul quotidiano inglese Telegraph, del 4 marzo di quest’anno, si legge che per la prima volta Facebook sta considerando l’ipotesi di permettere il commercio e la vendita dei prodotti legati alla cannabis a scopo medico o ricreativo, almeno nei Paesi dove è legale. Il problema principale sarebbe la difficoltà di identificare chi vende legalmente e chi illegalmente la cannabis, e applicare una serie di filtri sull’età degli acquirenti e sulla loro provenienza geografica.
Non ci resta che sperare che Facebook faccia presto, ma in ogni caso non eviteremmo il tema più grosso nel nostro Paese: il vuoto normativo e la distrazione (per non parlare di pochezza) della politica italiana.