Al di là delle “sentenze” mediatiche che continuano a tormentare la cannabis light giudicandola illegale, le motivazioni della Cassazione – lo ribadiamo ancora una volta – hanno lasciato aperto più di uno spiraglio per la vendita. I giudici di Piazza Cavour, in pochi purtroppo lo sottolineano, hanno esplicitamente scritto che la rilevanza penale va valutata rispetto alla capacità della sostanza ceduta di produrre effetti droganti.
La vera domanda cui rispondere è quindi la seguente: chi (e come) può stabilire questo valore discriminante? E soprattutto, quali sono le conseguenze giudiziarie e amministrative di chi continua a vendere infiorescenze e altri derivati?
Abbiamo tracciato un quadro completo conversando con Mauro Iacoppini, consulente chimico tossicologo dell’Università “La Sapienza” di Roma. Perché è chiaro che ora sarà la scienza a dover assumere un ruolo da protagonista. E soprattutto il vero attore sarà il tossicologo, che con le sue relazioni dovrà stabilire (avendo le competenze tecniche) se una sostanza “offende” secondo quel principio stabilito dalla Cassazione.
In attesa di nuovi studi scientifici in grado di determinare con chiarezza il limite drogante, un primo aspetto da sottolineare è la convergenza evidente fra studi tossicologici e giurisprudenza (dal 1989 in poi) che ha portato a individuare la percentuale di THC dello 0,5% come limite oltre il quale si concretizza l’effetto drogante. Questo aspetto – lo evidenziano anche gli avvocati Giacomo Bulleri e Carlo Alberto Zaina nelle loro recenti considerazioni – viene messo nero su bianco nel Trattato di Tossicologia forense, Ed. libreria Cortina Milano nel quale si afferma testualmente: “Per qualificare come stupefacente una cannabis sarà dunque necessario ritrovare i tre principali cannabinoidi (THC, CBN e CBD) ed una percentuale di THC tale da attribuire al prodotto un certo grado di psicoattività (pari o maggiore allo 0,5%)”.
C’è comunque un punto negativo da evidenziare, ci fa notare il dottor Iacoppini, ovvero l’aggiornamento avvenuto qualche anno fa delle tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope presenti nel DPR 309/90, dalle quali è stato tolto il limite discriminante della percentuale di THC.
“Questo valore, prima, permetteva la distinzione tra canapa da fibra (industriale) e canapa stupefacente tramite il valore dello 0,5% di THC. Questo perché proveniva da studi epidemiologici che affermavano che una canapa con contenuto uguale o inferiore dello 0,5% era pressoché inefficace sull’organismo, non manifestava alcun effetto psicotropo/stupefacente. Oggi invece – aggiunge Iacoppini – nella prima tabella del DPR 309/90 troviamo il principio attivo delta 8-THC e delta 9 THC mentre nella seconda rinveniamo esclusivamente i prodotti derivati dalla canapa quali le infiorescenze, le foglie, le resine, l’olio, senza specificare il valore percentuale discriminante del THC. Ed è questo il problema: a prescindere del contenuto di principio attivo THC, se esso è presente nel prodotto si rientra automaticamente nell’articolo 73 del DPR 309/90 anche se quanto affermato dalla Suprema Corte lascia aperta la possibilità di non incorrere in una sanzione penale, con la dicitura: salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa.Possibilità stabilita, a questo punto, dal parere di un professionista appartenente al settore scientifico”.
Tuttavia Iacoppini ci tiene a evidenziare un tema: “Da persona di scienza posso assicurare che lo 0,5% è inefficace sull’organismo umano. Certo, bisogna fare distinzione sulla qualità dell’utente e la quantità assunta. Il cervello di un adolescente, che è ancora in fase di sviluppo, ha una recettività e conseguenze maggiori rispetto a quello di un adulto e quantità eccessive di cannabis, anche a modesto contenuto di THC, può essere nocivo”.
Il secondo aspetto da approfondire riguarda invece le conseguenze cui vanno incontro i commercianti che continuano a vendere prodotti a base di canapa.
Qui il ruolo del tossicologo diventa determinante nella definizione di un procedimento penale per la vendita di cannabis light. Professionisti come il dott. Mauro Iacoppini (in servizio da oltre 30 anni nella Sezione di Medicina Legale della Sapienza) e di altri validi tecnici del settore (vedi la Polizia Scientifica, RIS dei Carabinieri, Dogane, etc.) lavorando su incarico della Magistratura, con le loro relazioni peritali, possono indirizzare il parere del PM se decidere o meno di rinviare a giudizio il venditore di derivati della cannabis. Tanto è vero che, sulla base del tenore di THC determinato, la Polizia Scientifica di Roma ha depositato recentemente una relazione tecnica ad un PM in cui sottolineava: “Considerato il valore limite di 0,5% di THC riscontrato dall’analisi del reperto sequestrato, si valuta il reperto classificato col n.1 materiale NON idoneo ad un uso stupefacente“.
In ogni caso sono tre le possibilità cui si può andare incontro vendendo infiorescenze, che dipendono anche dagli orientamenti dei prefetti e delle questure:
1– La polizia giudiziaria effettua un controllo e dopo la valutazione dei documenti che accompagnano le infiorescenze afferma che è tutto nella norma con nessuna conseguenza per il venditore. Si spera vada così per il 99% dei casi.
2– Viene applicato il dispositivo del Riesame di Genova del 21 giugno e la polizia giudiziaria prende in esame un campione per poi “non procedere” con il sequestro nel caso in cui il derivato abbia un contenuto di THC inferiore allo 0,5% di THC (come sembra stia accadendo in questo periodo a Milano).
3– La polizia giudiziaria esegue direttamente il sequestro.
Dottor Iacoppini, approfondiamo quest’ultimo caso. Innanzitutto cosa succede dopo un sequestro?
Si apre un fascicolo in procura dove il PM delega una struttura di fiducia (Polizia Scientifica, RIS Carabinieri, Dogane, Dipartimenti di Medicina Legale) a fare l’analisi del materiale sequestrato dal cui esito si evidenziano due parametri: il valore percentuale di principio attivo e il numero delle dosi. Sulla base di questi numeri si decide se considerare il reperto sequestrato stupefacente e rinviare a giudizio l’indagato.
E in quella fase è possibile evitare il processo tramite le relazioni tecniche?
Purtroppo non è così semplice. Come detto, l’attuale seconda tabella al DPR 309/90 non riporta il valore percentuale di THC discriminante e il PM, anche se è dimostrata la non pericolosità, può ritenere la sostanza sequestrata stupefacente. Inoltre il parere del PM potrebbe essere condizionato anche dal numero delle dosi ricavabili (singola dose drogante mg 25. Massimo quantitativo detenibile per soggetti tossicodipendenti: 500 mg corrispondente a 20 dosi) che se sono elevate potrebbe procedere per la richiesta di condanna.
Al fine di tutelare l’indagato è bene che nell’ambito del procedimento penale a suo carico, lo stesso si avvalga di uno specialista del settore (CTP) che visioni l’operato del CT incaricato dalla Procura presentando una sua contro-relazione stante a provare o almeno mettere in dubbio la nocività del materiale sequestrato sottoposto ad analisi.
Se poi, nonostante le controdeduzioni presentate, il PM decide di portare
l’imputato in tribunale allora ci si sposta in aula dove sarà possibile
esprimere considerazioni tecnico scientifiche e presentare relazioni tali da
convincere il Giudice. Ma i tempi di giudizio, a questo punto, si allungano
anche di molto.
Ci si può fidare delle analisi svolte dalla polizia scientifica, carabineri,
ect. richieste dal pm?
Ovviamente si. Strutture come la Polizia Scientifica,il RIS dei
Carabinieri, la Dogane ect. sono strutture istituzionali e svolgono il loro
servizio con grande serietà e professionalità i cui risultati difficilmente
sono contestabili. La procedura, però, consente l’imputato di avvalersi di un
CTP (Consulente Tecnico di Parte) che visioni il loro operato e dia una
interpretazione ai risultati ottenuti.
Quali sono i tempi di risposta per un’analisi?
I laboratori della Polizia Scientifica, dei Carabinieri, ect. svolgono
attività a livello interregionale ai quali giungono reperti da analizzare da
molte procure, commissariati, comandi, stazioni, ect., dove l’analisi del tuo
reperto, visto la mole di lavoro, rischia di attendere un tempo imprecisato in
quanto, presumo, è messo in scaletta in base all’ordine di arrivo in laboratorio.
Qual è allora la soluzione per uscire da questa incertezza?
La soluzione a mio avviso dove essere politica. Se non si vuole rimettere
mano al D. Lgs. 242/16 si deve reinserire, nella seconda tabella del DPR 309/90,
il valore discriminante dello 0,5%. Con questa operazione, visto la manifesta
inoffensività del contenuto di THC dichiarata dalla letteratura scientifica, si
ovvierebbero tutti i problemi che sinora si sono presentati.
Intanto, aggiungiamo noi, in tutto questo trambusto potrebbe essere utile
almeno un po’ di buon senso da parte dei magistrati. Anche perché, come abbiamo
appena visto, stiamo parlando di valori percentuali davvero contenuti. Per non
parlare dell’inutilità economica nel mettere in piedi tutti questi processi.
Istruire un procedimento penale costa allo Stato, per attività di indagine, di
consulenza e altre spese che i magistrati poi devono giustificare.
Per questo andrebbe prima di procedere con i sequestri andrebbe valutato se vale la pena istruire una indagine giudiziaria sapendo che quasi sicuramente il risultato porterebbe a un buco nell’acqua. Staremo a vedere.
Sul numero di luglio di BeLeaf potrete leggere un’altra intervista a Mauro Iacoppini con ulteriore materiale informativo sulle analisi chimiche (“Viaggio nelle analisi sulla cannabis, tutto quello che c’è da sapere”)