Ciò in cui tutti i democratici speravano, ma a cui forse nessuno veramente credeva, alla fine è successo. Con la clamorosa doppietta nelle elezioni suppletive della Georgia, anche il Senato americano passa sotto il controllo democratico e il presidente eletto Joe Biden potrà contare sull’appoggio di entrambi i rami del Parlamento. Si tratta di un voto storico, in uno degli Stati simbolo del Sud, che ha del miracoloso.
Al di là di tutte le implicazioni politiche che si porterà dietro (che saranno devastanti per il presidente uscente Donald Trump), i nuovi equilibri politici a stelle e strisce avranno ripercussioni pesanti (e positive) anche sul dibattito in corso sulla legalizzazione della cannabis a livello federale. Le prospettive, infatti, cambiano radicalmente. Se il Senato fosse rimasto in mano ai repubblicani, difficilmente avremmo avuto dei passi avanti in questo senso, ma ora le cose sono diverse.
A cominciare dal cosiddetto MORE Act (Marijuana Opportunity Reinvestment and Expungement Act) già votato dalla Camera ai primi di dicembre, per cui si temeva un sostanziale arenamento in Senato. Con la vittoria dem in Georgia, al contrario, tutto è tornato in gioco e l’approvazione definitiva della legge – che, nel sistema bicamerale americano, richiede il via libera in entrambi i rami del Congresso – non sembra più un miraggio.
Chiariamolo subito, a beneficio dei nostri lettori e di chi tende a semplificare troppo: con il voto favorevole al MORE Act gli Stati Uniti non legalizzeranno l’uso ricreativo della cannabis a livello federale. Il progetto di legge parla di depenalizzazione e riclassificazione, con un occhio importante ai risvolti economici e sociali ad esse collegati, ma non introduce le legalizzazione tout-court.
Ciò che non possiamo non sottolineare, però, è l’enorme valore simbolico che questo voto ha già portato con sé e l’impatto che potrà avere nel dibattito globale sulla legalizzazione. A dicembre, nel giro di due giorni, prima con il voto dell’Onu che ha riconosciuto le proprietà terapeutiche della cannabis e poi, appunto, con il voto di Washington, il movimento antiproibizionista ha piazzato due colpi clamorosi.
Due prime volte di proporzioni storiche. E mentre a Vienna la CND tirava fuori la cannabis dalla Tabella IV delle sostanze stupefacenti più pericolose istituita nel 1961, nella capitale americana 228 deputati (con 164 contrari) votavano per allentare le restrizioni introdotte nel 1970, all’apice della disastrosa e fallimentare war on drugs.
Si tratta di un passaggio che potrebbe rivelarsi decisivo per la battaglia di tutti coloro che hanno a cuore il destino della legalizzazione nel mondo, un messaggio forte e chiaro che i democratici americani hanno mandato a tutti.
Quel che succederà adesso negli Usa sembra scritto. Gli Stati che stanno per legalizzare o che si accingono a cominciare il percorso ormai non si contano più. Gli elettori sembrano non avere più alcun dubbio, basti pensare che i sondaggi dicono che il 68% dei cittadini americani è favorevole alla legalizzazione della cannabis e tra questi la minoranza repubblicana – come dimostrato anche nei recenti referendum in Stati storicamente rossi come il Montana, il South Dakota, l’Arizona (diventata blu) e il Mississippi – è sempre più numerosa.
Le pressioni a livello locale e a livello di opinione pubblica costringeranno Washington ad affrontare quanto prima il tema. Anche perché, appunto, l’opposizione repubblicana sarà sempre più blanda (visti i sondaggi) e tra i democratici crescono le pulsioni legalizzatrici, a cominciare dalla vicepresidente (e presidente del Senato) Kamala Harris.
Insomma, è evidente a tutti: ormai la strada è tracciata e indietro non si torna. Dai democratici Usa arriva una lezione che dovrebbe essere presa a modello dai tanti politici progressisti europei (ed italiani in particolare) che ancora cedono a vecchi calcoli e credono a vecchie logiche di opportunità o di consenso, ormai superate da tempo. Il momento del coraggio è arrivato. Se non ora, quando?