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Canapa, cultura della vita

Un articolo dell'autore del libro “Canapa, cultura della vita nel mondo e nella Judicaria”

Canapa, cultura della vita

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Canapa, cultura della vita

Una pianta di cui si conosce solo la superficie, come un iceberg di cui non si vede che una piccola parte o una nunatak, una montagna nascosta: la superficie è ciò che tutti credono, dicono, affermano: la canapa è una droga.

La pianta era presente dappertutto nei campi della nostra penisola nel millennio appena trascorso, dai paesi vicino al mare passando per le zone pianeggianti fino ad arrivare alle valli di montagna; una pianta utile, resistente, necessaria alla vita delle famiglie cui forniva tessuti e corde.

Mi sono chiesto se questa pianta fosse coltivata anche sul mio territorio e a che scopo e ho iniziato ad indagare…

Cosa posso fare per prendermi cura di questa terra su cui vivo e consegnare alle generazioni future un luogo ospitale e fecondo. Un amico appassionato della cultura degli indiani d’America mi ha citato un loro detto: “Sotto la terra che calpestiamo ci sono gli occhi di sette generazioni che ci guardano, pronte a venire al mondo, per questo i nostri passi devono essere leggeri”.

Cosa posso fare io, oggi, adesso, ora per essere leggero e lasciare a chi verrà dopo di me un ambiente salutare e fecondo? Come posso camminare leggero?

Il mio stesso esistere, la mia presenza, il mio essere vivo qui e ora ha un peso sull’ambiente che mi ospita. Vivo in una casa che devo riscaldare, utilizzo enormi quantità di acqua tutti i giorni, mangio tre volte al giorno cibo che qualcuno coltiva, qualcuno trasporta e qualcuno mette in vendita e che acquisto in confezioni che subito diventano rifiuto. Ho bisogno di muovermi e consumo benzina nel farlo, ho un dispositivo furbo per comunicare e un pc per scrivere ed entrambi contengono al loro interno minerali rari estratti in miniere lontane, poi fusi e trasportati prima di essere assemblati e messi in vendita e consumati.

Quali sono i miei bisogni primari? Sono bisogni comuni alla nostra e alle altre specie animali: bere, mangiare, avere un riparo, essere liberi di muoversi e di comunicare, avere la salute, ovvero un ambiente sano in cui vivere e avere un istruzione cioè qualcuno che ci insegni come si vive. Un uccello ha bisogno di qualcuno che gli insegni a volare, noi animali umani di qualcuno che ci insegni a stare al mondo.

Come facevano un tempo a soddisfare questi bisogni? Quando non esistevano il consumo e lo spreco che caratterizzano il tempo in cui vivo?

Parlando con gli anziani, coloro che ricordano un mondo diverso, più faticoso e scomodo, mi sono meravigliato di come ognuno di loro non senta nostalgia del tempo andato ma, al contrario, non tornerebbe mai indietro e si gode le comodità del presente. Un testimone mi ha detto “Il passato è passato e che non ritorni mai più” e ha continuato “Un tempo c’era bisogno del prossimo, di starci vicino, del mutuo accordo;  per fortuna oggi questo bisogno non c’è più” e ha proseguito “L’uomo cerca ciò che non ha, è istinto” e ha citato “Homo homini lupus”; io gli ho risposto che secondo me non è istinto, è cultura, che ci viene insegnato a volere sempre di più, a non accontentarci mai, a desiderare ciò che non abbiamo.

Durante la mia indagine, una ricerca antropologica sulla pianta della canapa in Trentino, mi sono confrontato con alcuni vecchi e vecchie, testimoni di un tempo in cui bisognava fare da sé ciò che era necessario per la vita di tutti i giorni. Dalla ricerca è nato un diario canapologico poi pubblicato con il titolo “Canapa, cultura della vita nel mondo e nella Judicaria”.

Un tempo si coltivavano i campi e dai campi di ricavava il cibo di cui nutrirsi e il nutrimento per gli animali; una parte del campo di famiglia era seminato a canapa perché dalla sua lunga lavorazione si ricavava il tessuto con cui realizzare le lenzuola, le tovaglie, le tende , gli asciugamani, i grembiuli, i sacchi in cui conservare i cereali, i teli con cui trasportare fieno e foglie dai campi sul monte fino a casa, le corde.

Un tempo in cui la vita era difficilissima e allo stesso tempo molto più semplice di quella che viviamo oggi; aveva valore ciò che era utile, necessario alla sopravvivenza e al soddisfacimento dei bisogni di ognuno. E la canapa si coltivava perché soddisfaceva alcuni di questi bisogni, un testimone ha raccontato che la pianta “C’era dappertutto, perché c’era bisogno e non c’era altro”

Oggi sappiamo solo che è una droga! Vediamo solo la punta della nunatak.

Il tempo passato insegna però un’altra storia, una storia sommersa da 60 anni di cattiva informazione e di proibizionismo; una mala informazione che ha creato paura e ignoranza.

Ho iniziato la ricerca senza sapere cosa avrei trovato sul territorio di indagine, il Trentino sud occidentale, il territorio della regione chiamata Judicaria; sapevo che l’Italia era stata un grande produttore mondiale di canapa da fibra fino agli anni ‘50 del secolo scorso, che la canapa era coltivata principalmente in Emilia, in Piemonte e in Campania.

Dove trovare tracce di questa coltivazione in Trentino? Sono partito dalla presenza di due murales, uno nel paese dipinto di Balbido e l’altro a Treville, che rappresentano le fasi di lavorazione della canapa e da lì è iniziato il mio viaggio alla scoperta di questa tradizionale coltura che ha accompagnato secoli della storia locale. La canapa era una pianta vicina alle famiglie trentine, presente nei loro campi ed era una pianta quotidiana perché ogni giorno la si vedeva o la si maneggiava fino ad ottenere il filo da portare al tessadro del paese.

In Trentino si era soliti seminare una parte del campo a canapa per ottenere la fibra: si seminava in Maggio, quando non si vedeva più la neve sulle cime e le piante venivano raccolte in Agosto. I fusti erano lasciati al sole affinché perdessero le foglie e poi immersi in vasche di acqua stagnante, le masére ricavate vicino ai fiumi o ai laghi. Rimanevano a bagno sotto il pelo dell’acqua, tenuti schiacciati da assi poste sopra i fasci e sassi posti sopra le assi per 3 o 4 settimane. Poi i fasci venivano tolti dall’acqua e portati ad asciugare al sole. Non era ancora finita: una volta asciutti le donne iniziavano il lavoro della gramolatura, con un attrezzo a forma di cavalletto dotato di un asse battente, spezzavano i fusti in modo da separare la fibra dal canapulo, la parte legnosa.

Durante una presentazione, con un mazzo di fusti di canapa in mano e una gramola vicina, ho chiesto ai presenti da dove, secondo loro, si estraesse la fibra, se dall’interno o dall’esterno del fusto; per alzata di mano quasi all’unanimità hanno risposto dall’interno. Una signora, un po’ stizzita dal mio tergiversare, ha affermato “Lo sappiamo tutti, la fibra è la parte interna”. Allora ho iniziato a gramolare i fusti: la parte legnosa interna, il canapulo, si è spezzato ed è caduto a terra e in mano mi è rimasta la fibra, la parte esterna del fusto, la corteccia! E’ un errore comune lo ho fatto anch’io , credere che la fibra sia dentro il fusto!

Un tempo, mi ha raccontato un altro testimone, era proibito gramolare la sera perché la polvere che si creava con quel lavoro di battitura oltre ad engosar le done, poteva prendere fuoco alla luce delle candele e incendiare il paese.

Dalla gramolatura si ottenevano dei fasci di fibra di canapa; un uomo mi ha arccontato che per indicare una testa dai molti capelli bianchi si diceva “Par na rocada de canef”.

Questi fasci dovevano essere pettinati. Per farlo si usava lo spinac, il pettine, un asse di legno con piantati molti chiodi attraverso cui si passava e ripassava la fibra per sgrezzarla, pettinarla e allinearla; ora la fibra assomigliava a “Code di cavallo lucenti”. Infine le mani sapienti delle donne, l’inverno nelle stalle durante i filò, ottenevano il filo con un gesto magico che permetteva alle singole fibre di diventare un unico filo. Per compiere questa magia si usavano roca e fuso: la roca è un lungo bastone su cui si attorcigliava la fibra pettinata, il fuso è una specie di cilindro di legno che veniva fatto roteare mentre  si toglieva la fibra dalla roca e la si inumidiva con la spuda, la saliva. Ne serviva tanta di spuda, perciò le filatrici erano solite tenere in bocca cornal castagne o mele secche.  Infine con il cegagn si toglieva il filo dalla roca e con il  guindol o guindal  si formavano i gomitoli . Il guindol era veloce e indistruttibile, queste sue caratteristiche rinvenute in alcune persone danno vita al detto “te vai come en guindol”.

“G’era na gran manutenzion da far ala canapa , tant laoro” ha affermato un testimone della ricerca canapologica sul campo.

I gomitoli andavano portati al tessadro del paese che tesseva il tocco, un pezzo di tela che veniva sbiancata bagnandola per alcuni giorni sul letto dei fiumi; con la tela le famiglie provvedevano a soddisfare i bisogni della casa.

Finalmente il lavoro era finito ed era ormai tempo di seminare un nuovo campo e ricominciare il ciclo: la canapa era presente ogni giorno nella vita della gente trentina, fino a 70 anni fa. Era una pianta vicina e quotidiana.

In ogni regione della penisola, non solo in Trentino, le famiglie avevano sempre un pezzo di campo seminato a canapa: nelle zone di mare con la canapa si facevano le reti da pesca, le vele delle barche e tutte le corde; un testimone ricorda i campi di canapa dei nonni in Abruzzo e rammenta i pescatori che, alla sera, intrecciavano con altra canapa le reti di canapa che si erano danneggiate nella pesca.

Un altro testimone, caseratano, lo ho incontrato alla fiera della canapa di Bologna e mi ha citato Plinio, storico romano, che individuava nella velocità degli spostamenti la potenza di Roma, velocità data dalle vele di canapa della sua flotta! Ad Aquileia sono state individuate delle vasche per la macerazione dei fusti della pianta, databili 3 secolo, da cui le vele…

Lui gira le fiere di settore con il suo museo itinerante: nel museo ci sono gli attrezzi per la lavorazione dei fusti e un vecchio telaio in legno. Sono esposti i tessuti e le corde, poi borse, pantaloni, valigie, giacche, camicie, gonne e perfino scarpe tutto realizzato con la canapa.

Non mancano le foto storiche, in bianco e nero, che mostrano uomini e donne al lavoro durante le fasi di trasformazione del fusto in fibra; ci sono anche alcuni giornali tra cui, vicino ad un vecchio numero di mani di fata degli anni 50, con i cartamodelli per farsi una borsa, una rivista del 1954 dal titolo, “Canapa” un regalo del nonno per celebrare l’anno della sua nascita. Ho sfogliato le vecchie pagine con curiosità, attenzione ed un po’ di incredulità: da una delle pagine della rivista Totò affermava “Tutto di canapa mi voglio vestire”; ho letto i diversi articoli che esaltavano questa produzione nazionale. Mi ha colpito un articolo illustrato dove la casa è vista dall’alto e nelle diverse stanze  almeno due oggetti sono fatti con la canapa. Ho cercato la rivista in rete e la si può sfogliare virtualmente qui: https://issuu.com/bottegadellacanapa/docs/canapa_rivista_a_fascicoli_1954_-_p

E’ anche un grande conoscitore della Reggia di Caserta e dell’architetto che la progettò, Vanvitelli; gli ho chiesto se la canapa sia presente nella Reggia, immaginandone qualche pianta nel giardino e ho scoperto che l’architetto Vanvitelli utilizzò i fusti della pianta negli archi del palazzo per alleggerire la struttura. La canapa ha moltissimi usi!

Come canapologo indago molto sulla pianta e in ogni luogo faccio domande per sapere se la pianta fosse presente; a Campitello di Fassa, 1600 metri sul livello del mare, la si coltivava: lo testimonia la parola ladina per canapa, la ciéneva, Il ladino è una lingua viva e identitaria, parlata dagli abitanti della Val di Fassa.

Qualche giorno fa ho proposto il libro, Canapa cultura della vita ad un uomo di circa 70 anni chiedendogli “Ti piace leggere?”

“Leggo poco” mi ha risposto rimettendo la copia che gli avevo passato sul tavolo; poi si è corretto “Leggo molto i libri di storia, divoro quelli di storia locale!”

Ho pensato che la canapa è storia e questo libro proprio un libro di storia locale e gliel’ho detto; mi ha dato ragione e ha iniziato a raccontarmi del papà che ad Aldeno coltivava la canapa.

Come canapologo osservo le reazione delle persone quando chiedo della canapa, alla domanda diretta, “Qua si coltivava la canapa?”, molte volte mi si risponde un sorriso indeciso; superata una prima fase di  imbarazzo, ci hanno insegnato che la canapa è una droga, ognuno ha una storia da raccontare sulla canapa proprio perché era diffusa dappertutto, verdeggiava nei campi e odorava di buono.

Durante una camminata nel bosco sopra il paese ho incontrato un uomo che mi ha raccontato la storia della canapa e dell’asino: “Con la canapa si facevano delle giacche molto resistenti utilizzate per il lavoro. Una volta un tale di Vigo era andato con l’asino a fare legna nel bosco, sulla montagna sopra Malga Pian. Al ritorno l’asino, che portava il pesante carico, si impuntò: non voleva più saperne di muoversi, non andava né avanti né indietro. Il tale le provò tutte e alla fine si mise davanti all’animale per colpirlo sul muso. L’asino maltrattato si impennò come fanno i cavalli e, nel rimettersi giù, le sue zampe anteriori finirono nelle tasche della giacchetta di canapa dell’uomo trascinandolo a terra, carponi. Il tale provò a rialzarsi ma la giacca non si ruppe e lui rimase a quattro zampe sotto la testa dell’asino. Non riuscendo a liberarsi iniziò a gridare aiuto, a chiamare a gran voce qualcuno. Dopo parecchio tempo giunsero alcuni boscaioli attirati dalle urla e lo liberarono spostando di peso l’asino e togliendo le zampe dalle tasche della giacca dell’uomo. Questo per dire quanto era forte e resistente il tessuto di canapa”.

Durante il periodo di ricerca antropologica sul campo ho intervistato anche giovani agricoltori che hanno reintrodotto la pianta sul territorio: oggi è infatti possibile, legalmente, seminare canapa nei campi, negli orti, sulle terrazze. Esiste un elenco europeo delle varietà di canapa che è possibile coltivare, si tratta di varietà che contengono nullo o pochissimo thc, tetraidrocannnabinolo, il principio attivo responsabile dell’effetto psicotropo. Si possono coltivare le varietà dell’elenco europeo, selezionate negli anni per ottenere fibre e semi alimentari.

In trentino esiste un’associazione, l’associazione canapa trentina, nata nel 2016 con la scopo di favorire la diffusione di questa cultura, per dare informazioni, per fare acquisti comuni della semente e per essere un ponte tra istituzioni e agricoltori nei progetti di sviluppo della filiera. I soci coltivano principalmente canapa da seme; dalla spremitura si ottengono un olio alimentare molto ricco di nutrienti essenziali e una gustosa e proteica farina.

Nel 2017 un giovane agricoltore del posto tra verdure, fagioli girasole patate e mais ha  deciso di seminare una parte del campo, circa mille metri quadrati, a canapa per ottenere semi alimentari; mi ha raccontato che la canapa stava crescendo bene ed era già alta. Un mattino, seduto nel campo prima di iniziare i lavori, ha guardato nella direzione della canapa senza vederla.

“Mi sembrava che gh’era la canapa aier” ha pensato e si è avvicinato al campo dando mentalmente la colpa ai cervi e alle cerve molto numerosi nella zona. Osservando meglio si è accorto che le piante erano state tagliate tutte alla stessa altezza e che nel giro di una notte qualcuno gli aveva rubato un intero campo di canapa. Le piante maschili non avevano ancora impollinato i fiori femminili, che erano resinosi e profumati ma privi del tutto di thc, perché si trattava di una delle varietà da seme ammesse.

Un giovane produttore di olio di canapa al mercato si è sentito chiedere ripetutamente: “Ma se condisco l’insalata con l’olio di semi di canapa, sballo?”

Come detto c’è grande confusione e molta ignoranza su questa pianta: la canapa, nonostante la proibizione di cui è stata vittima,  non è mai sparita del tutto dai suoli coltivati e dall’utilizzo in alcuni settori.  Ad esempio gli idraulici la utilizzano da sempre per il loro lavoro; mi viene in mente che su una vecchia rivista ho trovato una pubblicità degli anni ‘60 delle canne per dare da bere all’orto fatte di canapa! E’ una pianta tenace e umile che cresce dappertutto, si stima possa prosperare su un terzo delle terra disponibile per l’agricoltura.

Ripeto: oggi è possibile coltivare la canapa, molti vivai e garden center vendono piante di entrambi i sessi e di varie dimensioni  e possiamo mettere qualche pianta nell’orto o sul balcone senza paura!

La produzione più redditizia in questo campo è quella di infiorescenze, ricche di cbd, cannabidiolo, uno dei molti cannabinoidi presenti nei fiori femminili, che possiede proprietà curative ed è oggi molto studiato per le sue applicazioni mediche. I giovano che hanno iniziato la produzione di infiorescenze lo fanno con tenacia e con passione, pionieri di una coltura antica; questi contadini lo fanno senza sapere cosa accadrà domani, come cambierà la legge, se potranno ancora coltivare canapa l’anno prossimo; perciò investire in questo settore è considerato molto rischioso.

Secondo uno dei testimoni “l’industria farmaceutica si impossesserà della pianta per farne medicine, dopo aver mandato avanti dei “disperati” a sensibilizzare l’opinione pubblica”.

Il rischio esiste, è una pianta di tutti e tutti devono poterla coltivare, bisogna stare attenti ed essere vigili per evitare che la canapa diventi un business per le compagnie farmaceutiche!

Quando ho iniziato a parlare e scrivere di canapa ero convinto che ci fosse più conoscenza e di poter iniziare un discorso culturale senza bisogno di dover spiegare cosa fosse la canapa ma presto mi sono reso conto che il primo passo da compiere è quello di educare le persone a riconoscere nella canapa una pianta utile che ha aiutato l’animale umano durante la sua evoluzione, una pianta che è stata utile e necessaria alla vita dei nostri antenati. Fino a pochi anni fa si riteneva la canapa una pianta originaria dell’Asia centrale e in seguito trasportata fino in Europa dagli spostamenti dei popoli, ma un ritrovamento di un pezzo di corda di canapa in una grotta nell’ex Cecoslovacchia, datata con il metodo del carbonio 27000 anni fa, ha messo in crisi questa credenza. Anche sulle origini di questa pianta c’è mistero, di sicuro è sempre stata vicina e utile all’animale umano, si ritiene essere una delle prime piante addomesticate

Una testimone che ha fondato un’azienda che realizza con la canapa materiale isolante afferma che dovevamo ripartire dagli anni ‘50,

“Oggi abbiamo sbagliato tutto con l’idea di produrre cannabis light, ci siamo dati l’accetta sui piedi. Dovevamo ripartire dalla canapa per fare il tessuto e la carta e il resto sarebbe stato una conseguenza; oggi siamo nella situazione opposta con la parte ricca della pianta, il fiore, sottoposta a lente di ingrandimento e il resto che facciamo fatica a reperirlo, fusti buoni per farci i materiali isolanti, pannelli e mattoni”.

Oggi dobbiamo iniziare a seminare la canapa perché è una bella pianta, perché ha un buon odore, perché i semi sono nutrienti, perché durante la usa rapida crescita assorbe l’anidride carbonica di cui l’atmosfera è satura, perché da essa si possono ricavare materie prime diverse da quelle che la nostra società brucia e consuma ogni giorno senza criterio, perché la presenza della canapa intorno a noi farà nascere altre idee, altri progetti, altri materiali, altri modi di costruire, altri modi di nutrirci, altri modi di vestirci, altri modi di curarci, altri modi di pensare, necessari in questi tempi bui!

Alla fine mi chiedo “Sono un antropologo della canapa o un canapologo della mia specie?”. Antropologo della canapa: anthropos, uomo, e logos, discorso, quindi discorso, studio dell’uomo in relazione alla canapa; canapologo,  deriva da canapa e logos, quindi studio della canapa in relazione all’uomo. Chi sta al centro? L’uomo o la canapa?

La canapa è la nostra storia e la nostra cultura, e qualcuno dice che è solo una droga…

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