Articolo pubblicato su Linkiesta.it
Per mitigare gli effetti del cambiamento climatico e adattare il nostro pianeta ad un mondo già oggi sensibilmente più caldo serve attivare il mondo finanziario. Secondo l’ultimo report del Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) per decarbonizzare solo il settore energetico si dovranno investire, circa 900 miliardi di dollari l’anno. Ovvero moltiplicare per fattore cinque gli attuali investimenti. Più decine di miliardi di euro solo per adattamento che aumenteranno con il peggiorare della situazione fino ad arrivare ad un esborso di 300 miliardi l’anno al 2050.
Non ci sono alternative, insomma. Se vogliamo raggiungere una quota di emissioni nette a livello zero intorno al 2050 servono transizioni “rapide e di ampia portata”, nell’uso di suolo, produzione di energia (riduzione drastica delle fonti fossili), industria, edifici, trasporti e città: questo ci viene richiesto dalla comunità scientifica internazionale. E per farlo servono un sacco di soldi.
La finanza climatica
Una delle soluzioni per movimentare la finanza climatica risiede nel completamento del negoziato finale sull’implementazione dell’accordo di Parigi. A dicembre, in Cile, si discuteranno le regole per attivare, conteggiare e fare reporting dei proposti 100 miliardi di dollari l’anno, a partire dal 2020, per sostenere mitigazione e adattamento al climate change nei paesi meno sviluppati. L’Unione Europea ha promesso che il 20% della sua spesa estera sarà allocata a questo scopo. Gli Usa con Trump hanno congelato i finanziamenti, ma c’è da scommettere che – qualora perda nel 2020 – il prossimo presidente americano riallocherà una parte importante del budget del Dipartimento di Stato USA.
Soldi pubblici? Non solo. «Tutta la finanza pubblica del mondo non servirà a portare avanti la rivoluzione climatica. La vera svolta verrà dagli investimenti privati», ha spiegato Miguel Arias Cañet, capo (uscente) della strategia climatica europea. Al momento per attivare questi finanziamenti sono in vigore alcuni meccanismi come l’ETS, l’Emission Trading Scheme (che dovrà essere modificato con il pensionamento il prossimo anno del protocollo di Kyoto), il sistema REDD+ per la lotta alla deforestazione e riforestazione, e soprattutto il GEF e il Green Climate Fund (GCF), il fondo strategico creato all’interno del framework delle Nazioni Unite per stimolare investimenti pubblico-privati per la mitigazione e l’adattamento del clima.
Il GCF raccoglie soldi dagli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS) e finanziamenti multilaterali(ad esempio la Banca Mondiale ha promesso investimenti per 200 miliardi in 5 anni, di cui un quarto per adattamento) anche attraverso co-partecipazione finanziaria tra pubblico e privato con sistemi di matching e blending (Banca mondiale, riceverà 100 miliardi da International Finance Corporation e MIGA e soggetti privati). Per tanti la domanda non è solo quanto le singole imprese investano nella decabonizzazione del proprio business, ma quando entrerà il settore finanziario, le banche e gli assicuratori per sostenere sia questo tipo di fondi sia per indirizzare sempre di più le imprese nella giusta direzione.
Il fondo che vuole cambiare i giochi
Lo hanno definito il “fondo che piace a Greta”. In realtà quello che sta facendo Amundi, il più grande asset manager in Europea, dovrebbe interessare a tutti. Ideato da CPR AM, società del gruppo Amundi, CPR Invest Climate Action (CPR ICA) è il primo fondo dedicato per offrire agli investitori una soluzione innovativa per affrontare i rischi finanziari legati al clima.Perché è una svolta? «Il nostro ruolo d’investitore responsabile è quello di influenzare i comportamenti delle aziende per promuovere cambiamenti ambientali positivi che in ultima analisi generano performance di portafoglio» spiega Alexandre Blein, intervenuto ad un evento sul tema all’interno del forum Smart City: People, Technology & Materials, organizzato da Material ConneXion a Milano. S’investe dunque nelle aziende che stanno attivamente lavorando per la decarbonizzazione e per ridurre gli impatti ambientali.
Per valutare correttamente gli investimenti CPR AM ha creato una partnership con CDP (Carbon Disclosure Project), associazione nota per la pubblicazione di dati ambientali divulgati dalle aziende e detentore del database più completo a livello mondiale di auto-dichiarazioni di dati ambientali. Con CPR ICA per la prima volta le informazioni sulle performance climatica di un’azienda diventano chiave nella fase decisionale processo d’investimento. «Io seleziono e scelgo le aziende più virtuose in base alle proprie performance climatiche e finanziarie per creare un portafoglio unico nel suo genere», riassume Blein.
Per costruire il proprio portfolio tematico, Amundi applica tre filtri di esclusione che consentono di identificare le aziende più avanzate in termini di cambiamento climatico: il primo filtro, basato sui rating di CDP, mira a escludere le società con rating diversi da A o B (che presentano la più efficace gestione del rischio climatico), consentendo il reinserimento delle società con rating C che hanno adottato un “Science Based Target” ; il secondo filtro si basa sui rating ottenuti dalle analisi extra-finanziarie di Amundi che hanno l’obiettivo di escludere le aziende con le peggiori pratiche ambientali, sociali e di governance (ESG). Sono escluse tutte le imprese con un rating pari a F o G nel punteggio complessivo o nelle componenti E o G o in uno dei criteri ambientali; il terzo filtro per escludere le società che sono oggetto di controversie ESG.
Carbon Tax
Un’ulteriore soluzione di finanziamento potrebbe venire dalla politica. Secondo Marco Cappato, presente insieme ad Amundi a Smart City: People, Technology & Materials, «ora è il momento di lanciare un’Iniziativa dei Cittadini Europei per chiedere alla Commissione una carbon tax europea». Ovvero una tassa per dare un prezzo minimo per le emissioni di C02 che integri l’ETS (Emission Trading System) ma che non crei distorsioni e non vada a colpire soggetti deboli (come accaduto in Francia con l’ecotassa sui carburanti che ha acceso la protesta dei gilet jaunes). La proposta prevede un costo di 40 euro per tonnellata di co2 emessa per combustibile fossile, aumentabile gradualmente fino a cento euro in dieci anni, cosi come richiesto dalla comunità scientifica.
Attenzione però: servono dei meccanismi per evitare il carbon leakage (la fuga delle aziende carbon-intensive verso paesi che non hanno la tassa) e evitare meccanismi di protezionismo. «Si usa quei soldi per la cooperazione con i Paesi sottosviluppati sui temi climatici. Anziché “mandargli dei soldi” introduciamo meccanismi di equità e redistribuzione non assistenzialistici ma che corrispondono alla realtà di come si distruggono le risorse del pianeta».