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Non sta andando tutto bene

Ricordate quel bel video che nei giorni del lockdown girava in tutte le bacheche Facebook e che sostanzialmente diceva come il coronavirus (all’epoca solo in pochi lo chiamavano Covid) fosse un messaggio finale, un ultimatum che il mondo – in preda alla devastazione degli incendi in Australia, allo scioglimento dei ghiacciai e alla crescente della tossicità dell’aria che respiriamo nella nostre città – dava all’uomo? Un’ultima chance per capire che così non si poteva andare avanti.

Sembra passato un secolo, in realtà sono passate solo poche settimane. E oggi, alla fine di questa folle estate, ci troviamo qui a raccontarci come questo ultimatum sia sostanzialmente caduto nel vuoto. “Andrà tutto bene”, scrivevano i nostri ragazzi su fogli colorati con i colori dell’arcobaleno. E invece non sta andando tutto bene. Il “Coviddi” – termine orrendo, coniato sulla spiaggia di Mondello quando si pensava che il virus fosse “clinicamente morto” (da solo) – è vivo e lotta contro di noi. Il mondo non è cambiato. E le abitudini dei cittadini (e dei governi), forse, sono addirittura peggiorate. 

Fatevi un giro per le vie delle nostre metropoli, delle nostre periferie o delle nostre province. Vi sembra per caso che il traffico su gomma sia diminuito? Vi sembra che vi sia quella “nuova consapevolezza” tra i cittadini? Vi sembra che siano state create le condizioni per quella svolta epocale che il Covid avrebbe dovuto portare con sé? Assolutamente no, non prendiamoci in giro. Le abitudini della stragrande maggioranza della popolazione sono rimaste identiche e, anche quando (e se) questa emergenza passerà mai, stiamo solo ricreando le condizioni affinché se ne presenti un’altra, molto presto. 

Ora il refrain è che “il recovery plan”, da ideare sulla base del fatto che nei prossimi tre anni arriveranno una pioggia di soldi dall’Europa, sarà la panacea di tutti i mali. Ma, purtroppo, stiamo già vedendo che sarà molto difficile riuscire a mettere da parte di grandi vizi che hanno caratterizzato la gestione delle risorse in questo Paese dal dopoguerra ad oggi. Servono coraggio, visione, capacità di spiegare e comunicare bene le cose. 

Il bonus 110, il bonus “bici”, gli incentivi per le aziende green, le politiche a favore di una ripopolazione dei borghi e della aree interne sono tutte cose assolutamente apprezzabili, ma sono al momento solo titoli e rischiano seriamente di rimanere tali. Serve un cambio radicale di approccio alla realtà che ci circonda ed è indispensabile che i cittadini siano co-protagonisti di tutto questo. Come fare? Coinvolgendo e prendendo esempio dalle realtà più avanzate da questo punto di vista, fuori e dentro il Paese, mettendo da parte interessi corporativi e lasciando spazio alle idee più ambiziose e avanguardiste.

Voi direte, ma in tutto questo cosa c’entra la canapa? C’entra, c’entra molto. Perché la gestione della questione canapa, o cannabis che dir si voglia, è paradigmatica di una classe dirigente che si pone regolarmente al di sotto di quelle che sono le aspettative dei cittadini, come dimostrano le continue vicende indecorose a cui ci sottopone il Parlamento. Il sondaggio che la nostra rivista, insieme a PQE – società italiana leader nel campo delle certificazioni – ha commissionato all’istituto demoscopico Swg, è lì a dimostrare la portata di questa drammatica incongruenza. 

Su un tema considerato secondario, o di nicchia (nel migliore dei casi) dai nostri rappresentanti politici, come la cannabis ad uso medico, gli italiani hanno le idee molto, molto chiare. E sono anni luce avanti rispetto alla medievale discussione “sulle canne” che soprattutto una certa parte politica vuole imporre nell’agenda pubblica. 

E’ purtroppo la situazione a cui siamo costretti ad assistere su tutto ciò che implica uno scatto in avanti. Si parli di ambiente, di digitalizzazione, di sburocratizzazione, di semplificazione. Il Paese è incancrenito e solo un periodo di vero Risorgimento può sbloccarlo. Purtroppo non siamo sicuri che avverrà a breve, né che andrà poi tutto così bene.

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