SanPa, il docufilm su San Patrignano che racconta (anche) l’inadeguatezza dello Stato italiano

Ti tiene incollato davanti allo schermo e ti fa riflettere su quello che è stato ma anche su quello che è. Il documentario Sanpa, mini serie prodotta da Netflix e diretta da Cosima Spender, sta tenendo banco per l’accuratezza con cui ha spiegato che cosa era e cosa ha significato la comunità di San Patrignano per tanti ragazzi tossicodipendenti. Una realtà fondata su una collina di Coriano, in provincia di Rimini, molto attiva fin dalla fine degli anni 70 che ha tante luci e ombre, così come il suo fondatore Vincenzo Muccioli. In più di 5 ore, che coprono un arco di tempo di circa 15 anni, quasi 180 ore di interviste e 25 testimonianze, si è raccontato una mini società ma anche un intero Paese. Perché al di là dei metodi, più o meno condivisibili, più o meno efficaci, di Muccioli, c’è un altro aspetto del documentario che colpisce profondamente: l’incapacità dello Stato di affrontare un problema.

Quello della droga, infatti, è sempre stato un aspetto divisivo per il nostro Paese. Tanto che si è preferito far finta di non vedere le centinaia di morti di overdose, al pari della polvere da mettere sotto il tappeto, piuttosto che agire in maniera coordinata ed efficace.

Anche oggi che di tempo ne è passato, l’approccio alla prevenzione, informazione e cura delle droghe è sempre lo stesso. Ed è sbagliato. Non è un caso, infatti, che l’eroina e la cocaina siano ancora molto diffusi nel nostro Paese mentre l’attenzione dei politici si concentra su altro (e fa addirittura la guerra alla cannabis light).

Ma come è entrata l’eroina nel nostro Paese?

Nel documentario alcuni ragazzi spiegano che ad un certo punto della nostra storia, verso la metà degli anni ’70, nel pieno della rivoluzione sociale e culturale del nostro Paese, sulle piazze di spaccio gli spacciatori hanno cominciato a fare provare nuove sostanze gratuitamente. Addirittura regalando il kit del ‘perfetto tossico’ composto da eroina e siringa. Di prova in prova si è creata una vera e propria massa di zombie che invadeva la città e rovinava la serenità di intere famiglie, incapaci e senza mezzi per affrontare il problema dei propri figli. Ed è lì che lo Stato italiano ha mostrato tutta la sua inadeguatezza: scegliendo di curare le dipendenze dall’eroina distribuendo metadone o valium. Forse – e ripetiamo forse – in questo modo la dipendenza fisica era messa sotto controllo, ma a quella psicologica chi ci pensava?  Nessun programma di recupero, di rinserimento nella società o di informazione per le famiglie. Non c’era nessun alternativa: o ce la facevi da solo o si moriva di overdose.

Per questo la Comunità di San Patrignano è stata accolta praticamente da subito come una possibilità da sfruttare. Nel giro di pochi anni si è passato da poche centinaia di ragazzi ad oltre duemila ospitati nel centro: lavoravano insieme, si costruivano una nuova identità, facevano parte di una comunità e alcuni guarivano.

Nel documentario è raccontato tutta l’evoluzione di questa piccola città. E anche della nostra società che preferisce stigmatizzare e proibire piuttosto che agire. E così l’incubo del vivere in un Paese incapace di gestire le tossicodipendenze si fa realtà. Evidenza sempre più forte quando cominciano ad arrivare le tante morti causate dall’Aids, malattia che ha coinvolto anche San Patrignano. Alla fine degli anni ottanta nella struttura venne compiuto un test a tappeto: il 66% degli oltre duemila ragazzi ospitati era positivo all’Hiv.

Al di là dei meriti – presunti o tali- di San Patrignano, ciò che auspichiamo è che questa serie tv possa far riflettere chi di dovere sul fatto che un altro approccio alle droghe è possibile ed auspicabile se non si vogliono ripetere sempre gli stessi errori.