La fame delle persone affette da disturbi del comportamento alimentare, più che nel corpo, risiede nella mente. Momenti di stress, grandi ma anche piccoli cambiamenti, decisioni da prendere, addirittura la sola idea di mettersi a fare qualcosa, possono avere un effetto a tal punto disorientante per alcune persone da spingerle a mangiare anche quando non hanno fame.
Il cibo assume la funzione di incentivo all’azione, antidoto alla vita. Poi, nel caso delle dipendenze, quasi sempre gioca un ruolo fondamentale il fenomeno del craving, un desiderio smanioso e incessante che non viene appagato dal piacere procurato dalla sostanza da cui si è dipendenti, bensì è il medesimo rituale che si autoalimenta di se stesso ad avere un effetto sedativo.
Che la cannabis si possa rivelare una validissima alleata in caso di trattamento delle dipendenze è un fatto assodato. Ancora poco esplorata, tuttavia, è l’ipotesi dell’ausilio di questa straordinaria pianta nel caso di DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare). O meglio, dal momento che il THC stimola l’appetito, si parla di ausilio della cannabis nel caso di persone affette da anoressia; tuttavia siamo in materia di malattia nervosa e quindi, sebbene la stimolazione della fame fisica possa creare un circolo virtuoso che si ripercuote anche sull’appetito mentale, la guarigione riguarda un discorso ampio ed eterogeneo che nell’appetito vede soltanto uno dei suoi variegati sintomi.
E poi come la mettiamo con tutte quelle altre patologie di cui si popola il mondo delle persone affette da DCA, come la mettiamo con obesità, BED (acronimo dell’inglese Binge Eating Disorder, ovvero disturbo da alimentazione incontrollata) e bulimia nervosa? Persone costantemente dominate da una fame mentale, interiore, una fame vorace e apparentemente insaziabile che si innesca alla perfezione in un circuito di craving, fame che brama fame e non si esaurisce mai.
Nella pausa, nel respiro, nel silenzio forse ci sono delle risposte: fermarsi, respirare e, attraverso il respiro, ricontattare il corpo, questo potente informatore di stato, segnalatore di malessere e benessere di cui ci dimentichiamo spesso e con troppa facilità. Questo contenitore in grado di restituirci esattamente quello di cui abbiamo bisogno se solo mettiamo in campo la nostra innata facoltà di fermarci e ascoltarlo.
Nel nostro corpo esistono tutta una serie di recettori in grado di procurarci esattamente quello che ci serve nei vari momenti della giornata. La capacità di tranquillizzarci, di rilassarci, risiede nell’anandamide, un neurotrasmettitore endocannabinoide che mima gli effetti dei composti psicoattivi presenti nella cannabis. È al potere di Ananda, la dea indiana della beatitudine, che l’anandamide deve il suo nome. La “molecola della gioia”, come viene chiamata, è stata il primo endocannabinoide a essere stato identificato; questo avveniva nel 1992. Oggi, grazie a studi recentissimi, è stato dimostrato che un potente principio attivo della cannabis, la tetraidrocannabivarina (THCV), è un validissimo antagonista dell’anandamide.
Grazie a una ricerca effettuata presso l’Università di Buckingham, sappiamo inoltre che la stessa tetraidrocannabivarina e il cannabidiolo, un altro potente principio attivo della cannabis, sono in grado di incrementare la quantità di energia che il corpo brucia e di ridurre notevolmente la quantità di colesterolo nel sangue e il grasso in alcuni organi, primo fra tutti il fegato. Perché non ipotizzare, allora, che la cannabis, grazie alle sue infinite risorse, potrebbe rivelarsi la valida alleata anche di un organismo che fa fatica ad adattarsi al mondo e, per farlo, ha bisogno di imboccare, masticare, ingoiare, e di nuovo mettere in bocca, masticare, ingoiare per non guardare, per non sentire, per non vivere.
Alessandra Amitrano