Ormai è rimbalzata ovunque la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato non fondata la questione sulla legittimità dell’art. 75 d.P.R. n. 309/1990 laddove non prevede la condotta di coltivazione ad uso esclusivamente personale.
Alla luce delle motivazioni della Corte Costituzionale, giornalisti e giuristi più o meno “in erba” si sono affaccendati – come di sovente avviene – ad annunciare sconfitte e profetizzati pronostici della serie: “l’avevo detto io…”.
Si dimentica, invece, che il diritto – soprattutto quando sono in questione diritti civili del cittadino – è cosa ben più seria e complessa di improvvisati commenti e perentori giudizi.
La storia delle battaglie per la Libertà dovrebbe insegnare e dimostrare, specie al giurista, che le vittorie spesso si raggiungono poco alla volta, aspettando che il lavorio laborioso delle Corti, su sollecitazione degli avvocati, arrivi ai risultati auspicati. Specie in un Paese come il nostro, ove il ritardo – e nei casi peggiori l’inerzia – del legislatore è spesso lenito dalla giurisprudenza.
Così accadde, ad esempio, per il diritto di famiglia prima della grande riforma del 1975, o per la filiazione, prima della recente novella del 2012 che ha portato a compimento l’equiparazione tra figli legittimi e naturali: in entrambi i casi fu il lavoro della dottrina giuridica e della giurisprudenza ad anticipare e preparare il terreno al legislatore.
Lo stesso, con i dovuti distinguo, sembra essere accaduto per la coltivazione di sostanza stupefacente ad uso personale che, non di rado, pur involgendo esigenze terapeutiche del consumatore, è stata per molto tempo considerata condotta portatrice di un disvalore penale al pari del detenzione a fini di spaccio.
Diciamo “è stata per molto tempo considerata…” non perché vogliamo ignorare la recentissima sentenza della Consulta, ma perché l’aver diffuso per diversi anni – anche presso la Suprema Corte – certe idee sul principio di offensività della coltivazione di Marjhuana, sembra ormai aver colto nel segno, a prescindere dall’invocata questione di legittimità costituzionale.
Ci riferiamo a due sentenze della Corte di cassazione – una già commentata dal nostro sito ben prima del 9 marzo scorso (Cass. n. 43986/2015) – che hanno, quasi in maniera pedissequa, seguito il ragionamento logico-giuridico che portò la Corte di appello di Brescia a rimettere gli atti alla Corte costituzionale.
L’obiettivo, infatti, che come avvocati volevamo raggiungere, non era tanto la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 75, bensì ottenere un’interpretazione che correggesse la netta chiusura che le Sezioni Unite nel 2008 operarono con una sentenza che fece discutere. Tanto che, proprio dinanzi la Corte bresciana, additammo l’incostituzionalità, non della norma in se e per sé, ma dell’interpretazione che di essa il diritto vivente aveva operato.
Come a dire, fate qualcosa per distinguere quando la coltivazione è “inoffensiva” perché rivolta ad un uso esclusivamente personale e, se necessario, fatelo dire alla Corte costituzionale.
Abbiamo aspettato, insieme a tanti che ci hanno sempre manifestato la loro solidarietà e simpatia, finché senza che nessuno se ne accorgesse, il tanto sperato risultato è venuto lo stesso; non certo tramite lo squillo di tromba che fa tremare le colonne di un giornale, ma attraverso il timido e nascosto clamore che può avere una decisione della Suprema Corte: la n. 5254 del 10 febbraio 2016.
Tale decisione, come si accennava, riprende sostanzialmente il ragionamento svolto nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, ossia, verificare se la coltivazione di una pianta di sostanza stupefacente, anche se ha raggiunto la soglia di capacità drogante minima, possa essere valutata dal giudice come inidonea alla realizzazione dell’offensività in concreto.
Ebbene, smentendo il principio – ritenuto, dalla stessa Cassazione, “indubbiamente rigido” – per cui la condotta di coltivazione è sempre punibile indipendentemente dalla destinazione dello stupefacente prodotto, gli ermellini giungono proprio ad una valutazione più ampia del concetto di offensività, valutando se la condotta coltivativa, pur conforme pienamente al tipo, sia in grado nel concreto ad offendere l’interesse giuridico tutelato.
E concludono affermando che: “..l’ambito di tale riconoscibile inoffensività è, ragionevolmente, quello del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione tale da escludere la possibile diffusione della sostanza producibile e/o l’ampliamento della coltivazione; l’onere della prova, spettando all’accusa dimostrare la realizzazione del fatto tipico, va ritenuto tendenzialmente a carico dell’imputato anche se è probabile che la condizione di inoffensività sia di immediata percezione. Risulta quindi corretto affermare che l’avere coltivato due piantine, senza alcuna ragione di ritenere che i ricorrenti avessero altre piante non individuate e, quindi, essendo certo che quanto individuato esauriva la loro disponibilità senza alcuna prospettiva di utile distribuzione in favore di terzi consumatori, non è in concreto una condotta offensiva per le ragioni anzidette”.
Sarebbe a dire: non c’era bisogno di correggere la norma poiché è il lavoro del giudice di merito valutare nel concreto l’offensività della condotta, anche (e soprattutto, aggiungiamo) alla luce dell’uso personale.
Avv. Claudio Miglio
Avv. Lorenzo Simonetti