“Se volete l’erba libera andate a Barcellona e nei CSC” recitava un commento da rete sociale letto giusto ieri, nelle more della preparazione di questo mio primo contributo in salsa spagnola. Opinione isolata? Direi proprio il contrario: opinione dominante nella “Cannabis society” italiana, alimentata da cronache sensazionalistiche, frammenti di viaggi e molto vociare, più o meno raffinato.
Ma, soprattutto, è opinione fondata? Qui le cose si fan molto più complicate, al netto delle specificità dell’esperienza iberica, che vede nei Cannabis Social Club la punta di lancia del movimento antiproibizionista europeo.
La creazione di miti, o mitopoiesi, è esercizio antico quanto l’essere umano, poiché risponde all’esigenza intima di ciascuno di noi di credere in narrazioni che riscattano dalla durezza delle nostre vite concrete. I miti offrono rappresentazioni estetizzanti e consolatorie, danno un senso e un orizzonte al caos magmatico della realtà, e la loro straordinaria forza diffusiva risiede proprio in quello: crediamo ai miti perché ci piace credervi, perché abbiamo bisogno di credervi.
Ora, che una “società cannabica” come quella italiana, schiacciata da decadi di feroce e criminale persecuzione, abbia bisogno di credere alla terra promessa spagnola è assolutamente comprensibile.
Per un lato quasi liberatorio. Pur vivendo da più di 6 anni nella Comunidad Valenciana, i segni e le cicatrici e il condizionamento del proibizionismo italiano li porto ancora tutti. Una seconda pelle da cui è difficile lavarsi.
Ciò nondimeno, siamo innanzi a un errore grave di analisi. A un’illusione foriera di altri errori e pasticci.
La Spagna, piaccia o no, è ancora tutta dentro la logica delle convenzioni ONU sulle droghe, è ancora imprigionata nella cattedrale del proibizionismo, ancorché in posizione defilata, e prossima all’uscita dal labirinto.
In Spagna è tuttora vietato e sanzionato penalmente coltivare, distribuire, cedere e vendere Cannabis e derivati ex codice penale. Come è tuttora reato amministrativo – anzi, rafforzato recentemente dal governo del PP (Partido Popular, ndr) con la “ley Mordaza”- detenere e consumare Cannabis in luogo pubblico. E non differentemente dall’Italia si colpiscono scriteriatamente i consumatori automobilisti, vedi la recente “ley del Trafico” sempre di marca PP.
La differenza in punto di diritto, e che ha aperto cammini di lotta emozionanti, sta unicamente nella disciplina del consumo e detenzione in luogo privato, che sono tollerati. Apertura che si riflette, con effetti deflagranti, nell’ipotesi di coltivazione in luogo privato per auto consumo, parimenti tollerata.
Ma, si badi bene, in nessun momento nella legislazione spagnola si parla espressamente di auto coltivazione né si fanno riferimenti a numero di piante, quantità o altri dettagli pornografici.
E’ stata piuttosto la giurisprudenza, nel vuoto legale presente, ad aprire la breccia. Per chiarire: se la polizia viene a sapere che vi è una coltivazione in atto, ancorché palesemente per autoconsumo, la polizia interverrà sempre, indipendentemente dal numero delle piante e dalle circostanze. Sarà poi il giudice, se lo riterrà opportuno, a derubricare il caso, o ad assolvere, sperabilmente, alla fine del processo.
“No más presos por plantar” (mai più detenuti per piantare) è stata forse la parola d’ordine più ripetuta dal movimento spagnolo in questi anni. E No, “l’erba non è libera” nemmeno in Spagna, per rispondere, infine, alla suggestione iniziale.
In quella breccia aperta dalla magistratura, però, e complice una società più aperta e impermeabile all’isteria in tema di Cannabis, una crescente comunità di attivisti e un’ intraprendente industria cannabica sono riuscite a conquistare spazi di libertà inusitati per milioni di consumatori e coltivatori. Sono riuscite a fare della Spagna il centro e l’avanguardia della società cannabica europea, con le sue migliaia di associazioni antiprobizioniste, Cannabis Social Club, piattaforme di lotta (vedi FAC – Fed. delle Ass. Cannabiche, e Mujeres Cannabicas), Grow Shop, fiere e festival, Cannabis cup, riviste, progetti editoriali, imprese, consorzi scientifici, studi giuridici…
A renderla un esempio a cui hanno guardato, fra gli altri, l’ex presidente Pepe Mujica in Uruguay e, parzialmente, gli stessi estensori del Dl Cannabis Legale all’ora di prevedere i Cannabis Social Club.
Cannabis Social Club, o CSC, è un’etichetta riecheggiata più volte nel corso dell’articolo, e con ogni probabilità suonerà familiare a voi lettori. E, aggiungo, è verosimilmente il “principale responsabile” della costruzione di quel mito diffuso e irresistibile della Spagna “legale” e paradisiaca. Fuori dal mito però, cerchiamo di comprendere realmente un fenomeno sociale così innovativo.
I CSC non sono negozi, non sono dispensari all’americana, né coffe shops olandesi. Sono associazioni senza fini di lucro di attivisti, di consumatori e coltivatori di Cannabis che nel vuoto legale spagnolo, combinando dottrina dell’autocoltivazione e del coltivo condiviso al diritto associativo, hanno affermato un modello collettivo di auto produzione e distribuzione ai soci consumatori. I CSC, autoregolamentati dalla FAC, rompono giorno dopo giorno con decadi di proibizionismo e narcotraffico, e a costo di denunce, detenzioni, condanne che hanno colpito molti riformatori spagnoli. I CSC costruiscono diritti, producono cultura e riaffermano la centralità della persona rispetto alle logiche economiche e monopolistiche di mafie e corporation. Sono il risultato della lotta decennale del movimento sociale cannabico iniziata con ARSEC nei primi anni Novanta e che, sentenza dopo sentenza, processo dopo processo, in un’inarrestabile progressione, ha aperto per via giurisprudenziale una nuova via ai diritti delle persone. Sono una prassi di lotta che ha realmente trasformato il panorama spagnolo, e non solamente, e scosso nelle fondamenta il dogma proibizionista e i suoi portatori di intessi.
Ma nessuna conquista è definitiva, tanto meno se non vi sono leggi a proteggere i diritti. Dal settembre 2015, infatti, la Corte di Cassazione spagnola, il Supremo, ha radicalmente mutato indirizzo e giurisprudenza, dichiarando di fatto illegali i CSC, lasciando aperta la porta del dubbio per i micro club. Equiparando, oltretutto, le associazioni virtuose ai negozi mascherati e ad associazioni solo di nome. Lo stesso leader del movimento spagnolo, Martin Barriuso, fondatore dello storico club Pannagh e della FAC, è stato condannato con tutta la giunta a 2 anni di prigione e 250mila euro di multa. La Maca, epicentro dell’antiproibizionismo catalano, ha dovuto chiudere i battenti un paio di mesi fa, e con processi in corso. Solo per citare i due casi più eclatanti di un attacco formidabile da parte delle autorità.
Ogni Cannabis Social Club attivo in Spagna in questo momento (e che rispetti il diritto associativo…) è agente di disobbedienza civile.
Non è dato sapere quali saranno gli sviluppi futuri, e invero il panorama dopo le recenti elezioni è quanto mai confuso e preoccupante anche in tema di diritti e di marijuana policy. E’ paradossale registrare come il vento americano della legalizzazione che sta contagiando anche il Belpaese, qui in Spagna si sia fermato alle colonne d’Ercole, e anzi negli ultimi due anni si siano prodotti molti arretramenti.
Ciò che è certo, fuori dal mito, è che qui, come in Italia, la dimensione della lotta sociale cannabica è “hic et nunc”, e ancora è da percorrere quell’ultimo tratto di cammino della lunga marcia per i diritti di noi consumatori e coltivatori. Di noi persone. Hasta la victoria!
Alessandro Oria – Presidente di Assonabis
Pubblicato originalmente in BeLeaf 0, novembre 2016