Paradossi italiani: volete coltivare marijuana? Fatelo, ma non “curatela” troppo…

E’ il grande paradosso italiano che prende forma. Ovviamente tutto sulla carta, perché, lo ricordiamo per chi si avvicinasse solo ora a questo mondo, che le sentenze non fanno la legge e che purtroppo, nonostante le molteplici interpretazioni, la legge non permette ancora la coltivazione ad uso personale. In attesa che le nostre speranze diventino realtà (presto o tardi accadrà, a dispetto dell’oltranzismo proibizionista), la Corte di Cassazione, con la sentenza 1766 del 16 gennaio scorso, apre un nuovo fronte: quanto curate le vostre piante? Poco, abbastanza o troppo? Sembra un discorso assurdo ma non lo è.

La sentenza della Corte di Cassazione

Secondo la sentenza dei magistrati della quarta sezione penale della Corte di Cassazione, infatti, la ripetitività delle attenzioni (innaffiature, concimazione, ecc.) escluderebbe la possibilità, nel caso si venga “pizzicati”, di invocare la non punibilità determinata dalla cosiddetta “tenuità del fatto”, ossia dalla scarsa offensività del comportamento e dalla non abitualità nel reato. Il reato di coltivazione di piantine di marijuana non sarebbe quindi di per sé incompatibile con il riconoscimento della tenuità del fatto. Soprattutto se, argomentano i supremi giudici, le piantine sono ancora in fase di germogliazione, ossia in quella fase iniziale dello sviluppo che non consente la produzione del principio attivo.

Tutto ruota intorno al concetto di abitualità

Leggerezza dell’offesa e non abitualità del comportamento sono le condizioni che permettono di godere della non punibilità per i reati per i quali è previsto un periodo di reclusione non superiore a cinque anni.
Ma cosa fa scattare l’abitualità? Di sicuro (e la giurisprudenza lo ha più volte ribadito), i comportamenti seriali: i casi tipici sono i maltrattamenti in famiglia e gli atti persecutori. Ma anche le cosiddette condotte plurime, cioè i reati che consistono in più comportamenti ripetuti nel tempo. Ed è in questa seconda categoria – scrive Il Sole 24 Ore nella sezione Norme e Tributi – che rientra la coltivazione di piante da cui è possibile ricavare sostanze stupefacenti.

La coltivazione, sostiene la Cassazione, richiede infatti “la messa in esecuzione di pratiche agronomiche” e “una sequenza di atti coordinati verso il conseguimento del risultato, costituito dalla germinazione del seme e dalla crescita della pianta sino alla maturazione dei frutti”. Tuttavia, se questa sequenza di atti si ferma alla prima fase di vita delle piante, ossia alla germogliazione, non si può più parlare di abitualità.

Il reato di coltivazione della marijuana (previsto dall’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti) non è quindi – concludono i giudici – per principio incompatibile con l’applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Su questo, sostiene la Cassazione, i giudici della Corte d’appello si sono sbagliati. Per valutare se il beneficio della non punibilità può essere applicato bisogna, in definitiva, valutare se, nel caso concreto, la coltivazione delle pianticelle si è concretizzata in comportamenti seriali.