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Che cosa deve decidere l’Onu sulla cannabis e perchè non lo fa

Soltanto pochi giorni si è riunita a Vienna la 62esima Commission on Narcotic Drugs (CND), un appuntamento periodico che serve a fare il punto sulla situazione droghe a livello mondiale.

Si sperava che dopo le raccomandazioni dell’Oms, che ha chiesto alla Commissione di modificare la classificazione della cannabis nelle convenzioni internazionali, rimuovendo la pianta dalla quarta tabella della convenzione del 1961, quella riservata alle sostanze considerate più pericolose (l’eroina, per esempio), si vedessero dei grandi passi avanti. Ma così non è stato.

Centinaia di ministri e capi di Stato hanno preferito, ancora una volta, rimandare le decisioni. Per il governo italiano addirittura non si è presentato nessuno ma, come hanno scritto gli amici di Fuori luogo, forse è meglio così. Se facciamo uno sforzo di memoria, non potremo non ricordare i precedenti del 2009 quando il governo Berlusconi “ruppe il fronte riformista europeo” ma anche oggi le cose non vanno meglio, basta ascoltare le dichiarazioni deliranti del vicepremier Salvini o del suo fedelissimo ministro alla Famiglia con delega alle Droghe, Lorenzo Fontana. E così anche stavolta passi avanti non ci sono stati.

Il documento finale messo a punto nei mesi scorsi in seguito ad intensi negoziati e colpi di scena, è pieno di contraddizioni e anacronistiche definizioni, ormai superate dal tempo e dalle evidenze. “È un contesto ristretto in cui nessuno si azzarda a criticare radicalmente l’impianto proibizionista derivante dalle tre Convenzioni Onu sugli stupefacenti, quella del 1961, del ’71 e dell’88, che hanno portato alla concezione delle “tabelle” dentro le quali finiscono, nelle leggi nazionali, piante e sostanze da proibire molto diverse tra loro”, commenta il radicale Marco Perduca.

Ma non è solo una questione di pregiudizi, in ballo ci sono tanti interessi economici e politici che non possono essere ignorati: all’interno della stessa commissione esistono diverse posizioni, alcune più proibizioniste e repressive (come Russia e i Paesi africani ed asiatici) altre con approcci più sensibili e accondiscendenti, come la Bolivia, alcuni Stati americani ed europei e dalla stessa Commissione europea, che insistono sulla linea della riduzione del danno e della proporzionalità delle pene. Non è un caso, fa notare Fuoriluogo, che in contrasto con il documento politico finale un gruppo di lavoro interistituzionale dell’Onu abbia pubblicato un rapporto secondo il quale “le politiche punitive sulla droga continuano ad essere utilizzate in alcune comunità, nonostante siano inefficaci nel ridurre il traffico di droga o nell’affrontare l’uso e l’offerta di droghe non mediche, e continuano a minare i diritti umani e il benessere delle persone che fanno uso di sostanze, nonché delle loro famiglie e comunità”.

Insomma qualcosa si sta muovendo ma molto, troppo lentamente. Si può ipotizzare che il prossimo 2020 sia l’anno della ‘rivoluzione’? Chi vivrà, vedrà.

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