In Italia non erano un oggetto di uso comune. Anzi quando vedevamo in giro qualcuno che le indossava ci veniva un po’ da ridere. Ora sembra che non possiamo farne più a meno. Ci sentiamo tutti più sicuri, a torto o a ragione, indossando una mascherina. Proprio per questo sono diventate introvabili. E la loro natura ‘usa e getta’ non aiuta: costi esorbitanti e difficoltà di smaltimento.
Per questo in Italia ci siamo ingegnati e molte realtà tessili grandi e medie, dal Nord al Sud, si sono attivate per convertirsi e produrre rapidamente i tanto necessari presidi sanitari. Parte delle mascherine “Made in Italy”, diversamente da quelle prodotte in Cina, non sono monouso ma sono riutilizzabili e lavabili per fare bene anche all’ambiente.
Per citare solo qualche esempio: ci sono quelle realizzate in cotone Steff (non trattato con pesticidi) con un trattamento idrorepellente antigoccia, utilizzabili più volte, quelle prodotte dal gruppo Miroglio di Alba, grande azienda del tessile e del retail; in cotone lavabile a 90 gradi quelle prodotte e donate in Calabria dalla sartoria di abiti da sposa di Graziella Lombardo; in cotone e trattate al chitosano (sostanza bio-based, di origine naturale ottenuta dai residui dello scheletro dei crostacei) quelle prodotte dal gruppo Canepa, azienda leader nella tessitura serica di fascia alta e nella produzione di tessuti pregiati in fibre naturali, in collaborazione con una tessitura del Salento.
E poi ci sono quelle fatte di fibra di canapa che ha un effetto naturalmente battericida. E così anche la nostra amata pianta può dare un contributo alla lotta contro il Coronavirus.
Prodotte da Maeko, azienda specializzata nella produzione di filati e tessuti naturali (come canapa, soia, ortica e bambù) nascono nel segno della sostenibilità e sono state già inviate, gratuitamente, al policlinico di Cagliari.