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“Legalizzare è possibile, questa crisi lo dimostra”. La storia del CSC di Bolzano, al tempo del coronavirus

In questo periodo la maggior parte degli Shop sono stati chiusi al pubblico. Alcuni però hanno potuto riaprire i battenti prima degli altri, come ad esempio il Cannabis Social Club di Bolzano. Ne abbiamo approfittato per una chiacchierata con Peter Grünfelder, presidente dell’Associazione. Ecco cosa ci ha detto.

Come nasce il Cannabis Social Club di Bolzano?

CSC nasce come associazione nel 2015, su iniziativa mia e di Stefano Balbo. All’inizio era difficile coinvolgere persone in questo progetto, e ce lo aspettavamo. Chi va in giro a promuovere questa tematica in una realtà conservatrice come l’Alto Adige? Nel 2015 abbiamo iniziato a trovarci una volta a settimana e nel settembre 2015 abbiamo fondato questa associazione, che oggi conta più di 800 soci.

Quali sono state le motivazioni alla base della scelta di fondare il CSC?

Io personalmente ho sempre fatto progetti per promuovere informazione dal basso (ad esempio portale kultur.bz.it e salto.bz, ndr). Questa volta volevo fare qualcosa per promuovere sul territorio il tema della legalizzazione della cannabis. Una volta iniziato a lavorare ed entrando sempre più in contatto con le persone mi sono accorto però dell’importanza degli aspetti terapeutici e dell’uso medicinale della cannabis. Lì è diventato chiaro che dovevamo lavorare con i pazienti, capire cosa c’è dietro e raccontare il disagio che vivono queste persone per superare la poca informazione, sia tra noi cittadini che tra i medici.

Anche perché in un certo senso la marijuana è già legale…

Se ci pensi è così. Oggi è possibile avere accesso in modo legale a questa sostanza, ma l’accesso ai trattamenti con questo farmaco è soggetto a molti impedimenti e ostacoli e ci sono ancora troppi pregiudizi.

Il modello Cannabis Social Club prevede la possibilità di associarsi per l’autoproduzione, come già accade in Spagna. Quali sono le prospettive per voi in questo ambito?

Noi aderiamo al modello ENCOD e vorremmo coltivare Cannabis Medica per i nostri pazienti, ma al momento non ci sono le condizioni. In questa fase, come associazione di pazienti, facciamo soprattutto attività di sensibilizzazione, consulenza e informazione.  

Concretamente?

Il CSC nasce per accompagnare i pazienti e aiutarli ad avere accesso legalmente alla cannabis. Noi li mettiamo in contatto con i medici e li aiutiamo ad effettuare tutte le pratiche. Oltre a ciò creiamo momenti di informazione, confronto approfondimento, per essere un punto di riferimento positivo per i nostri soci, e contribuire a costruire una comunità, dove prima ognuno affrontava questi problemi da solo.

Come CSC operate per sensibilizzare i medici. In cosa consiste la vostra attività?

Noi lavoriamo con un comitato scientifico e ci siamo impegnati molto per creare una formazione per medici e farmacisti. Abbiamo strutturato un corso online, accreditato a livello provinciale in collaborazione con l’Azienda sanitaria locale. Nel novembre 2019 abbiamo organizzato una conferenza in collaborazione con l’Università di Bolzano a cui hanno partecipato medici da tutta Italia. Allo stesso tempo però abbiamo lavorato molto con la politica e le istituzioni e siamo riusciti a promuovere l’adozione di una delibera per regolamentare il settore. Non è stato facile. È stato un processo durato due anni, in cui abbiamo rotto le scatole, ma a fine maggio 2018 è uscita questa delibera, che prevede l’accesso gratuito a questo farmaco (solo le infiorescenze, non olio, ndr.) e in cui si stabilisce che 7 servizi dell’ospedale possono adottare questo piano terapeutico.

Quale è il segreto dei risultati che avete ottenuto?

Noi cerchiamo di promuovere consapevolezza. Allo stesso tempo sappiamo che è importante avere un buon rapporto con le autorità. Ma tutto parte da una stretta collaborazione con i medici locali, perché il cambiamento viene dal basso. Ci muoviamo a più livelli, perché nonostante i risultati ottenuti, che ci danno grande soddisfazione, sappiamo che c’è ancora molto da fare. Basta pensare che in Alto Adige sono solo due i reparti che hanno dimostrato apertura a questa tematica e promuovono piani terapeutici con l’utilizzo di Cannabis Medica, cioè il reparto cure palliative e terapia del dolore.

Per quale motivo, secondo te?

Entrambi i reparti sono relativamente nuovi anche in Alto Adige e subiscono un po’ gli stessi pregiudizi che ci sono per la cannabis. Allo stesso tempo si tratta di un settore quasi di frontiera, aperto alle novità che possono contribuire a migliorare la qualità della vita dei pazienti. Per questo è stato possibile collaborare bene con questi medici, in particolare con il primario dell’ospedale di Bolzano, in quanto loro si rendono conto direttamente degli effetti positivi che può avere la cannabis per migliorare la qualità della vita dei pazienti.

Per il disagio psichico invece?

In questo settore la situazione è tragica perché non è prevista nessuna regolamentazione in materia. Ogni medico può però prescrivere la cannabis come medicinale per la cura del disagio psichico, sotto la sua responsabilità professionale e sulla base della letteratura scientifica esistente. Il problema è che la maggior parte dei medici non si assume questa responsabilità e non va oltre le direttive del ministero. E questo mi fa molto arrabbiare.

Dopo cinque anni di attività dell’associazione sono cambiate le cose?

Abbiamo visto che rispetto a cinque anni fa c’è più apertura, ma ancora molto resta da fare. Sono aumentati i medici che prescrivono cannabis terapeutica ma molti sono ancora contrari e il processo è ancora troppo lento.

Che ruolo possono avere i pazienti in questo processo, in particolare nel rapporto con i medici?

I pazienti sono i primi che devono mostrare responsabilità. Troppo spesso come pazienti non siamo consapevoli o non vogliamo pensare agli effetti collaterali delle medicine che ci prescrivono. I pazienti devono chiedere al medico di valutare la possibilità di avere una cura alternativa con la cannabis. Se non c’è l’interesse nei pazienti, allora non possiamo pretendere che i medici vadano in questa direzione.

Nel 2016 siete stati molto attivi quando è stata presentato il disegno di legge di iniziativa popolare per la regolamentazione legale della produzione, del consumo e della commercializzazione della cannabis e dei suoi derivati. Cosa ci puoi raccontare di quella esperienza?

Come associazione abbiamo raccolto in Alto Adige oltre 5.000 firme e sono stato più volte a Roma per confrontarmi con alcuni parlamentari e anche con l’allora ministro della Sanità. Come sappiamo tutti, il disegno di legge è rimasto in un cassetto. Purtroppo, ho imparato che raccolte di firme e iniziative di legge dal basso in Italia non valgono niente. Una grande delusione verso la politica e verso le procedure della democrazia.

Però ci sono state una serie di sentenze che hanno fatto giurisprudenza…

Ma le sentenze della Cassazione non hanno lo stesso valore di una legge organica e non hanno contribuito a fare chiarezza, anzi. La sentenza del 2019 sulla coltivazione della Cannabis Sativa L. e la commercializzazione dei prodotti derivati faceva proprio schifo (sentenza n. 30475/2019, ndr.). Si contraddiceva, ha fatto casino. E oggi tutta la filiera dipende dalla discrezionalità dei questori.

E il ruolo dei media?

Anche loro hanno fatto casino perché hanno riportato solo il primo paragrafo della sentenza.  Non parlo delle riviste specializzate come BeLeaf, ma tutti gli altri hanno fatto passare il messaggio che la Cannabis Light era vietata, con effetti devastanti per tutti i Cannabis Shop e la filiera produttiva. Ricorda poi che in quel periodo c’era Salvini che faceva una fortissima propaganda contro il settore, e si è parlato addirittura di guerra del bene contro il male.

Parliamo di oggi. Da settimane stiamo tutti affrontando l’emergenza Coronavirus. Negozi chiusi e molti pazienti temono il problema dell’approvvigionamento. Cosa sta succedendo in questa fase?

L’approvvigionamento è sempre stato un problema e in questo senso i pazienti hanno sempre vissuto una crisi. Nel gennaio 2018, in Alto Adige come in tutta Italia, la Cannabis Medica era introvabile. Anche lo scorso novembre ci sono stati problemi, con la conseguenza che molti pazienti dovevano rivolgersi al mercato nero. In questa fase ci aspettavamo problemi, però abbiamo notato, stranamente, che al momento non è così. Per la cannabis light non è cambiato molto. I corrieri continuano a lavorare e riceviamo regolarmente dai nostri fornitori. Anzi abbiamo registrato un aumento della richiesta.

La maggior parte degli shop in Italia sono stati chiusi al pubblico, ma il CSC ha potuto riaprire prima. Come mai?

CSC è in primo luogo una associazione di pazienti operativa nell’ambito sociosanitario. Inoltre, fin dall’inizio dell’attività abbiamo trattato i prodotti edibili a base di canapa. Per questo ci è venuto naturale chiedere fin dall’inizio la licenza per vendere prodotti alimentari. Siamo poi autorizzati a vendere prodotti igienizzanti per la casa. Anche questo ci ha fatto rientrare tra le categorie autorizzate a riaprire.

È stato difficile orientarsi in questa situazione?

All’inizio non si capiva niente, anche se sapevamo che le attività di vendita al dettaglio di alimentari potevano restare aperte. Naturalmente non volevamo ricevere sanzioni e prima di riaprire abbiamo chiesto a tutti gli enti possibili, dalla camera di commercio alla questura, dal Comune al Pubblico Ministero. Ci hanno risposto in tanti, ma mai in modo formale. Fino a quando non abbiamo ricevuto una comunicazione ufficiale dal Comando provinciale dei Carabinieri che confermava che la nostra attività era autorizzata a riaprire. Come shop abbiamo rispettato naturalmente tutte le condizioni di sicurezza e abbiamo tolto le confezioni da 1g per evitare che le persone vengano tutti i giorni.

Si può trarre qualcosa di positivo da questa crisi?

Abbiamo notato che ad avere problemi è stato il mercato nero. Questa crisi ci dimostra che una gestione legale del settore è possibile.

Prospettive per il futuro?

Promuovere la nostra conferenza e la formazione per i medici in tutta Italia, in collaborazione con altre realtà come la nostra. E fare nascere un Canapa Cafè aperto al pubblico in centro a Bolzano. Sarebbe fantastico. 




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