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Carcere: superate le 60.000 presenze, l’Italia verso una nuova condanna?

Voltaire nel diciottesimo secolo affermava: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri“, considerato che ritengo questa frase la misura che spesso mi fa ragionare sul tema del carcere, è possibile affermare che le nostre carceri e il nostro Paese vivano parallelamente un crollo d’umanità. Le persone in carcere sono di nuovo più di 60.000, i posti sono sempre 48.000, ed il rischio è quello di vedere il nostro Paese nuovamente condannato per trattamenti inumani e degradanti.

Le politiche dell’ultimo anno del governo Meloni, con aumenti delle pene generalizzati e l’introduzione di nuovi reati (dal decreto Anti-Rave di un anno fa, passando per il decreto Caivano ed il pacchetto sicurezza su tutte), non fanno altro che spingere sull’acceleratore del sovraffollamento e nel rendere invivibili le condizioni di detenzione. Per chi pensa che costruire più carceri sia la soluzione, come ogni tanto viene propinati da alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, non ha contezza di quello che accade in carcere e della funzione primaria che dovrebbe avere questa istituzione: il recupero della persona che ha commesso un reato.

Molto risiede nell’articolo 27 della nostra Costituzione, che recita: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte“. All’interno di questo articolo dovrebbero essere ricondotte le azioni per renderlo vivo, per far si che ad esempio il nostro paese non abbia il 68% di recidiva, uno dei dati peggiori d’Europa che rileva lo stato di abbandono di questa istituzione. Se guardiamo l’altro lato della medaglia vediamo come i progetti positivi facciano diminuire la recidiva, che scende al 2% tra la popolazione detenuta quando viene data la possibilità di imparare un lavoro. La possibilità di lavoro in carcere ricordiamo che è stata introdotta con l’articolo 15 della legge 26 luglio 1975 n. 354, pochi possono accedervi e spesso per un periodo limitato. Faccio un esempio:

quest’estate, in Luglio, sono andata a vistare il carcere di Sondrio con i Radicali. Certamente il carcere di Sondrio è molto diverso da quelli cittadini, come ad esempio San Vittore a Milano. L’ambiente è più piccolo, ma allo stesso tempo ci sono spazi (palestra e biblioteca) a disposizione dei detenuti, ed anche il rapporto con la polizia penitenziaria risulta più umano visto il minor quantitativo di persone che abitano quel carcere. La direttrice ci ha fornito il quadro rispetto alle attività di recupero, che sono varie, e ci ha mostrano il laboratorio di produzione di pasta e alimenti interno al carcere, dove in particolare sotto Natale alcuni detenuti vengono assunti per la produzione. Questo accade grazie all’iniziativa di una cooperativa della zona, ma non basta. Il laboratorio come detto prima resta aperto per qualche mese sotto Natale, durante l’anno chiude e termina così la possibilità di avere un luogo interno in cui imparare un mestiere.

Questo accade a Sondrio, ed in molte altre carceri, alcune delle quali hanno difficoltà maggiori a causa delle caratteristiche. Prendiamo proprio San Vittore, prima citata, che ha la differenza di essere una casa circondariale, dove ingressi ed uscite delle persone sono continui. Questo rende spesso impossibile implementare dei percorsi di recupero, che siano lavorativi, di formazione o anche scolastici. Inoltre, le risorse economiche stanziate per il carcere sono esigue rispetto alle reali necessità, cosa che vale per tutti gli istituti carcerari indipendentemente dalla natura degli stessi.

Torniamo all’inizio: 60 mila presenze, 1/3 dei detenuti è in carcere per reati droga-correlati che riguardano per lo più la cannabis: sarà forse il caso di ripensare alle politiche repressive applicate fino ad oggi per andare verso una società migliore?

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