Da qualche giorno la chat interna della Federazione Associazioni Cannabiche, la gloriosa FAC, si è fatta elettrica. Tutta un rincorrersi d’informazioni e sollecitazioni di pernottamenti e passaggi alla volta di Barcellona. Uno scenario per nulla dissimile dai muri dei social network e dalle prime pagine delle riviste specializzate, dove la locuzione “se calientan los motores”, si scaldano i motori, smarrisce via via il suo senso originario tanto è ripetuta e abusata.
Così vanno le cose nella penisola iberica. Appena passato il periplo della Cannabis Cup più prestigiosa del Paese, la Copa Thc Valencia, ecco che una sorda frenesia, dapprima solo un timido ronzio ma che ben presto si farà tuono e fragore, pare impossessarsi della comunità cannabica locale. A quasi due mesi dalla sua apertura, il conto alla rovescia per la Spannabis già ha iniziato a catalizzarne tutte le attenzioni. E a informarne le intenzioni.
Come una messa ormai giunta alla sua quattordicesima celebrazione, la principale fiera del globo terracqueo dedicata all’autocoltivazione della Cannabis è “tout court” l’evento centrale e magnetico di tutto il mondo cannabico spagnolo. Si badi bene, non solamente del suo settore industriale come sarebbe lecito attendersi.
Al di là dei suoi numeri esorbitanti, delle decine di migliaia di coltivatori e consumatori che la affollano, delle centinaia e centinaia di stand e imprese presenti; oltre quel gigantismo che personalmente ho sempre trovato vagamente opprimente, la fiera di Barcellona è uno di quei rari eventi che ri-disegnano le mappe: alla Spannabis si deve essere presenti. In qualsivoglia forma. Chi non è alla Spannabis, semplicemente non c’è.
Non è però mia intenzione soffermarmi sull’evento puntuale, sulla cronaca della grande festa ora genuina ora forzata che si consuma nei tre giorni fieristici. Altre saranno le occasioni. Mi interessa qui piuttosto sottolinearne il carattere rivelatore. Se un evento in origine di natura meramente commerciale si fa Sole di tutto un sistema complesso (che tiene insieme coltivatori, consumatori, club e attivismo, e appunto industria), bisogna arrivare fino alle conseguenze logiche ed estreme.
Si deve allora affermare che Spannabis è la rappresentazione plastica ed evidentissima della primazia del settore industriale sull’attivismo, almeno qui in Spagna. Di più. Della oggettiva ancillarità dell’attivismo nei confronti dell’industria, da cui in gran parte dipende per i bilanci annuali e quindi per la sua stessa capacità d’azione politica. E questo a dispetto che, se guardiamo alla storia del movimento, sia stato proprio l’attivismo degli anni ’90 di Arsec – l’associazione germinale citata nel primo articolo –, e poi della madrileña Amec, la basca Kalmudia, la barcellonese CCCB fra le tante, ad aprire quelle fessure legali e di conseguenza quegli spazi economici in cui Spannabis e il settore industriale si sono affermati con enorme vigore dagli anni 2000 in poi.
Se Spannabis sia anche il simbolo della preponderanza degli interessi economici particolari sugli interessi collettivi, questa è probabilmente una questione rinchiusa nei tempi in cui viviamo.
È necessario rilevare la crescente permeabilità dell’attivismo spagnolo agli interessi commerciali, come nel caso delle ambigue piattaforme rivendicative Regulación Responsable – a cui Spannabis dà amplissimo spazio – o la catalana FedCac. Tecnicamente gruppi di pressione formati da stakeholder (portatori di interessi) privati, dalle ampie disponibilità finanziarie, con precise agende politiche spesso eterodirette, ma che si presentano e sempre più si legittimano presso il movimento cannabico come i depositari degli interessi generali di coltivatori e consumatori. E presso le istituzioni, come gli interlocutori privilegiati dei processi di regolamentazione, l’ultimo nella città di Saragozza. Ad opinione di chi vi scrive, confondere lobbies, ancorché brillantemente camuffate, e rappresentanze sociali è un abbaglio pericoloso, soprattutto se si hanno a cuore gli esiti collettivi della lotta sociale antiproibizionista. Ma appunto come accennato sopra, è probabilmente un altro segno della realtà che angustamente abitiamo.
Parliamoci francamente: agli occhi del mondo vasto dei consumatori di Cannabis, che quelle fiere di cui sopra affollano, una marca dalle spregiudicate strategie commerciali e dal marketing feroce come Green House varrà sempre più di tutte le Arsec e le FAC di questo mondo. Un simpatico e affascinante narco-commerciante come Mister Nice più di un santo calvinista, mi si passi il sincretismo, come Joep Oomen. Che a entrambi la terra sia lieve.
La stessa linea di demarcazione fra impresa e attivismo talvolta è molto sottile, e tanto più in un settore di frontiera come quello cannabico i due piani tendono a confondersi.
Bisogna forse avere il coraggio d’ammettere, e dal mio punto di vista è ben sconsolante, che nelle società liberali ad economia di mercato – e marketing dipendenti – la capacità d’influenza sui processi decisionali, e sui cambiamenti di costume, in capo al mondo delle imprese è costitutivamente e nettamente superiore a quella dei cittadini auto organizzati.
Del resto, la stessa indispensabile Drug Policy Alliance non avrebbe avuto il medesimo impatto sul processo di legalizzazione americano senza i finanziamenti e le relazioni della Open Society di G. Soros. “È la stampa, bellezza!”.
Osserviamo allora più da vicino i caratteri e i numeri del comparto commerciale, che tanta parte ha nelle sorti cannabiche spagnole.
All’origine di tutto, riprendendo le tesi dell’articolo passato, si erge la figura del Cannabicoltore, che innesca la rivoluzione dell’autoproduzione, la quale a sua volta alimenta la crescita esponenziale dei growshop sul territorio nazionale. Dal punto di vista della dinamica impresariale, sono i growshop l’ossatura e la scintilla del settore. È proprio dal retrobottega dei grow che nascono – e continuano a nascere – la gran parte dei banchi di semi, che dal punto di vista economico sono la gallina dalle uova d’oro del settore: semi pagati 0,30 – 0,40 euro l’uno vengono venduti a 8/15€. E nascono distributori, ditte di fertilizzanti e parafernalia varia, fiere e coppe cannabiche oggi imperanti sul mercato. E sempre da quei retrobottega nascono molti dei Cannabis Social Club attuali, siano essi associazioni vere o coffee shop mascherati.
Spostiamo allora la nostra attenzione su un’altra icona, la Guía del Cáñamo (Guida alla Canapa), in termini cartacei il gemello della Spannabis, entrambe di proprietà del gruppo editoriale di Cannabis Magazine. Il quale, dimenticavo, a sua volta è membro fondatore e finanziatore di Regulación Responsable.
Fatti salvi miei possibili errori di conteggio, confesso che son rimasto francamente impressionato dai dati del 2017, sapendo che ai rilevamenti della guida sfuggano numerose start up. Noi stessi come Assonabis ci vedemmo menzionati solo un anno dopo l’apertura del Club.
Ad ogni modo, la guida censisce:168 distributori che servono ben più di un migliaio di growshop.
166 fabbricanti di qualsiasi prodotto immaginabile collegato alla coltivazione e consumo. 110 banchi di semi fra cui multinazionali come Dinafem, Positronics, Sweet Seeds che ormai investono in tutta Europa e America Latina. 26 progetti editoriali, fra carta stampata, digitale e imprese di comunicazione audiovisiva come la già ricordata Marihuana Television o la filiale spagnola di Weedmaps. 18 fra fondazioni e gruppi di ricerca e investigazione scientifica e medicinale come ICEERS o la SEIC, la Società spagnola di ricerca sui Cannabinoidi. 23 studi legali e agenzie di consulenza, come lo studio BrotSanBert, capitanato dall’arcinoto avvocato/attivista Hector Brotons, che ha appena visto ammettere dalla Corte Costituzionale il ricorso sul caso Pannagh (vedi numero 0) per riconosciuto valore sociale del club di Bilbao. E infine, centinaia e centinaia di associazioni e Cannabis Social Club, in parte preponderante di natura schiettamente commerciale.
Numeri esatti sull’occupazione generata dallo sviluppo impetuoso del business cannabico non sono disponibili, ma non è un azzardo sostenere che gli addetti siano decine di migliaia. E che in decine e decine di milioni ammonti il fatturato annuo complessivo.
Questa perdurante pochezza di dati aggregati, in cui ci siam imbattuti anche nello scorso articolo, segnala un altro carattere precipuo del comparto industriale. A dispetto della crescente professionalizzazione degli ultimi anni ben testimoniata dalla nascita di tante agenzie di servizi e consulenze, il carattere originario del settore è quello “callejero”, di strada. La proibizione della marijuana costringe all’illegalità produttori, distributori e consumatori, li tiene stretti in un circuito criminogeno dove le funzioni si intercambiano, trasformandoci automaticamente in narcotrafficanti.
Nel momento in cui la proibizione si attenua e si aprono spazi legali alla autoproduzione e alla possibilità di acquistare legalmente semi e prodotti (dal ’99 nel L’Antic di Bcn), si verifica automaticamente un travaso di attività, risorse e operatori da quelle aree grigie causate dalla stessa proibizione ai nuovi spazi finalmente (semi) legali. Dando vita a uno degli “ascensori sociali” più rimarchevoli di questi anni rigidi e classisti. Perché (semi) legali? Vendere semi è legale. Produrre semi, no. Formalmente i semi venduti da tutti i banchi spagnoli sono prodotti all’estero. Paradossi di questo principio di normalizzazione ma che ci dicono non poco sul carattere “eccentrico” dell’industria cannabica. Buona parte dei protagonisti del comparto viene dalla “calle” (strada) o da “logiche di calle”, e questo probabilmente lascia il segno in un settore caratterizzato da un lato da grande dinamicità e intuito, dall’altro talvolta dalla mancanza di pensieri lunghi. Vedi l’assenza di una vera e propria associazione di categoria, che un gran bene farebbe al comparto commerciale e al movimento tutto, chiarendo le posizioni in campo e dotandosi di strumenti di analisi economica e sociale del fenomeno “cannabis legale”. Vedi una certa timidezza a finanziare convintamente l’attivismo: in realtà, gran parte delle sovvenzioni all’attivismo spagnolo provengono da gruppi olandesi come Sensi e Canna o americani come Advanced.
Sarà forse perché, non è mistero, alcuni imprenditori locali a quattrocchi confessino di preferire lo status quo, che garantisce loro fortune economiche e successi sociali, agli imprevedibili scenari di una compiuta regolamentazione della cannabis.
È infine la natura intimamente ambigua della lotta sociale cannabica a mostrare le sue contraddizioni. La Cannabis (proibita) è lotta per i diritti, vuol dire assenza del diritto basilare al libero sviluppo della personalità, come sancito dalla Corte Suprema messicana lo scorso anno. Allo stesso tempo, la Cannabis (proibita e/o legale) è una merce che da tutti i lati la si guardi genera giri d’affari e profitti enormi. Alla lotta per i diritti delle persone corrispondono le disgrazie o fortune di moltissimi attori economici. Se prevarranno i diritti (al consumo libero, all’autocoltivo etc) o gli interessi, saranno anche la forza e lucidità del movimento a determinarlo.
Alessandro Oria – Presidente di Assonabis
Pubblicato originalmente in BeLeaf 2, marzo 2017