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Il carcere come una fabbrica

L’attività lavorativa, per le persone detenute, è tra gli elementi fondamentali del trattamento risocializzante. Dalla Costituzione alle leggi ordinarie, emerge questa indicazione: ”...al condannato...
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Un controllo molto particolare – Notizie dal carcere

Un controllo molto particolare

Coloro che seguono questa rubrica su questa rivista, avranno notato che ho cercato, con abbozzi panoramici, di osservare il carcere da diversi punti di vista. In particolare ho provato a esaminare le condizioni della persona costretta e rinchiusa dentro il carcere, da varie angolazioni. Non so se ci sono riuscito, questo lo direte voi lettrici e lettori. Prendo spunto da questa premessa per informare, chi si accinge a leggere, che le righe che seguono proveranno a osservare la persona detenuta da un punto di vista non materiale.

Un controllo molto particolare - Notizie Dal Carcere

Non mi riferirò, quindi, all’eccessiva presenza in carcere di persone non ancora condannate (in attesa di giudizio) che raggiunge il 34% della popolazione detenuta, percentuale molto alta che desta forti preoccupazioni presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), né alla carenza di “servizi” di pulizia e igiene, come docce funzionanti, impianti sportivi ecc., che il carcere dovrebbe offrire per rispondere agli obblighi costituzionali e nemmeno alle ristrettezze dello spazio, ben al di sotto dei minimi stabiliti dalle norme internazionali che regolano le condizioni di detenzione per le persone detenute. Per tutte queste violazione lo stato italiano è stato già condannato a una multa molto salata l’8 aprile 2013 e un’altra multa si profila all’orizzonte. Questi problemi continuano a gravare sulle persone detenute che rivendicano cambiamenti ed è opportuno solidarizzare con loro.

Ciò che metterò sotto osservazione oggi è la percezione non-materiale che ha la persona detenuta della propria reclusione. Ecco la prima: pur costretta in uno spazio molto ristretto, gomito a gomito con altre, la persona detenuta si sente come in un deserto, in uno spazio dilatato all’infinito, completamente isolata e privata di comunicazioni con l’esterno. È una percezione abbastanza diffusa e colpisce ogni persona, soprattutto in particolari momenti della vita carceraria.

La sensazione è quella di sentirsi rinchiusi in uno spazio che non è uno spazio, perché non ha dimensione, e che non riesce a proteggere la propria intimità; ci si sente continuamente esposti all’osservazione (e al controllo) degli altri. Non per la presenza di telecamere, queste non ci sono ancora nelle celle, tranne casi particolarissimi di regimi detentivi speciali. È la sensazione di sentirsi continuamente osservati/e, ma non da occhi magici e telecamere, ma da occhi umani. Questa sensazione è manifesta perché non si ha nessun’area, seppur limitata, dove tutelare la propria intimità. Come se si fosse rinchiusi in una gabbia di vetro circondata da molti occhi che ci scrutano. Gli occhi sono quelli delle guardie, dei sorveglianti, dei giudici, degli psicologi, degli psichiatri, dei preti, dei funzionari del ministero della giustizia, dei giornalisti per conto dell’ “opinione pubblica”, di quelli che fanno le statistiche sulle persone carcerate, ecc. Ma anche di tutti quelli, istituzioni e privati, compresi semplici cittadini e cittadine, che vogliono sapere chi sono quelli e quelle che stanno dentro, cosa pensano, cosa fanno, perché hanno violato la legge e cosa faranno una volta usciti.

Qualcuno obietterà: ma se scrivete che il carcere è zeppo di mura, anche troppe, perché oggi dite che queste mura non riescono a tutelare l’intimità di una persona reclusa? Il carcere di mura ne è stracolmo, ma sono mura che stanno lì per impedire alla persona detenuta di andarsene dal carcere e servono a bloccare la comunicazione con l’esterno, non sono utili a tutelare l’intimità della persona.

Ci sono occhi che osservano quanto dorme quel detenuto, che scrutano cosa fa in cella, con chi si accompagna quando passeggia all’aria, quale giornale acquista, cosa legge, se ha rapporti cordiali oppure litigiosi con altri detenuti, a chi scrive, da chi riceve posta, anche cosa scrive (la censura è molto diffusa in carcere), perfino quali generi alimentari compra.

Insomma degli ultimi, degli esclusi, degli emarginati, degli scartati, dei dannati, si vuol conoscere tutto. Per la persona detenuta la sensazione è quella di sentirsi controllata costantemente, una sensazione che si approssima a quella di sentirsi minacciata. La minaccia non è visibile, né individuabile materialmente ma può arrivare in ogni attimo e da ogni parte, è indistinguibile, è oscura, è occultata.

Chi è sottoposto a questo controllo totale reagisce, il più delle volte, scavando dentro di sé, nel luogo più profondo, un posto sicuro, un rifugio, per proteggere i propri sentimenti, le sensazioni, ma anche i pensieri. È un meccanismo che conduce alla chiusura verso tutto ciò che non appartenga alla stessa comunità, ossia detenuti e solo quelli vicini. Per difendersi dall’invadenza della custodia e del controllo dei codici dell’istituzione carcere, la comunità prigioniera è portata, addirittura costretta, a costruire nuovi codici interni e rafforzare quelli esistenti.

Si consolida così lo spirito di gruppo chiuso e di clan che allontana sempre più le persone detenute dalla società in nome della quale sono stati reclusi e, in nome della quale, le istituzioni che li hanno reclusi, dovrebbero reinserirli.

Pubblicato originalmente in BeLeaf 7, gennaio 2018

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