
Non è affatto semplice. E non lo è perché non esiste, a oggi, un tavolo di discussione in Italia sull’argomento. Anche le recente iniziativa del senatore grillino Matteo Mantero, che ha depositato in Senato un disegno di legge per legalizzare la coltivazione, la lavorazione e la vendita della cannabis e dei suoi derivati, è stata subito bloccata dall’alleato leghista perché la materia non è presente nel contratto di governo. Nonostante, negli anni scorsi, le relazioni annuali della Direzione nazionale antimafia avessero espresso una certa apertura nei confronti della legalizzazione – appurato, una volta per tutte, il fallimento delle politiche proibizioniste – di legalizzazione e di droghe si occupano in pochi e questi pochi non trovano ascolto presso le istituzioni. Un grido d’allarme c’è, ma resta sotto traccia, e riguarda l’eroina che è tornata ad avere una diffusione capillare, anche perché una dose arriva a costare anche 4 euro. Non esiste più alcuna informazione sul tema. Chiunque si trovi a parlare di eroina e tossicodipendenza, se dirà il vero, e cioè che oggi siamo in una situazione di emergenza paragonabile a quella che il nostro Paese ha vissuto negli anni Ottanta e Novanta, stenterà a essere creduto. I tossicodipendenti vengono trattati come criminali e spesso non trovano accoglienza nelle comunità di recupero ma scontano in carcere la loro pena per reati, spesso minori, connessi alla loro condizione. Cosa c’entra tutto questo con la legalizzazione delle droghe leggere? C’entra, perché le droghe leggere portano liquidità nelle casse delle organizzazioni criminali, liquidità che serve per alimentare il “commercio” di altre droghe (cocaina ed eroina) e per dopare l’economia di uno stato. Maniero ha detto esattamente questo: i fiumi di denaro che entrano, attraverso il narcotraffico, nelle casse delle organizzazioni criminali, alimentano il narcotraffico e conferiscono alla criminalità organizzata un potere d’acquisto immenso. E in vendita ci siamo noi e le nostre democrazie.
Le tesi portate avanti dai proibizionisti sono sempre le stesse da decenni: legalizzare non vuol dire sconfiggere la criminalità organizzata e contribuisce a creare nuovi consumatori. Cosa c’è di vero in queste affermazioni e cosa ci insegnano i Paesi in cui il processo di regolamentazione è stato già avviato?
È vero che legalizzare le droghe (ora, per assurdo, penso a tutte le droghe) non porterà automaticamente alla fine delle organizzazioni criminali, ma essendo quello il mercato più redditizio, possiamo aspettarci di vedere il loro potere economico notevolmente ridimensionato. Legalizzare le droghe significa ridimensionare il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nel tessuto economico e sociale di un Paese, perché viene loro sottratto potere economico.

Questa è una domanda fondamentale e la risposta non è né scontata, né semplice. Diciamo che il legame tra terroristi, criminalità organizzata e spaccio di droga dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti e dovrebbe essere oggetto di continuo dibattito, ma si preferisce, ancora oggi, ragionare in un’ottica di contrapposizione di visioni del mondo, si preferisce parlare di scontro tra religioni e culture, quando le evidenze portano da tutt’altra parte. Siamo ancora qui a credere che gli attentatori abbiamo curricula di radicalizzazione più lunghi rispetto ai loro curricula criminali, ma non è così.
Chérif Chekkat, l’attentatore di Strasburgo, aveva ben 27 condanne per reati comuni commessi in Francia, Svizzera e Germania, dove è stato detenuto. Dicono si fosse “radicalizzato”, eppure non c’era nessuna traccia nel suo appartamento di legami con l’Isis. Ancora più emblematico il caso di Brahim Abdeslam, il terrorista che la sera del 13 novembre si fece saltare in aria davanti alla brasserie di boulevard Voltaire a Parigi, noto alle forze dell’ordine per furto e traffico di droga.

L’approccio al tema continua a essere un approccio etico e morale, ma solo per opportunismo politico, perché in realtà nel nostro Paese etica e morale vengono applicate a discrezione a temi e argomenti che devono diventare o rimanere tabù. Il clima di perenne campagna elettorale non aiuta, perché la politica non riesce mai ad affrancarsi dalla necessità di raccogliere consensi e per farlo devono restare fuori dal dibattito quei temi che maggiormente generano polemiche e si prestano a strumentalizzazioni, ma soprattutto quei temi che, a differenza dell’immigrazione, non riescono a essere percepiti come priorità. Eppure tra immigrazione, legalizzazione delle droghe e tossicodipendenza, le ultime due avrebbero un grado di urgenza assai maggiore, ma per mostrare come in Italia ci siano troppi immigrati basta dire: “Vai a Tremini, vatti a fare un giro a Napoli in Piazza Garibaldi o vai in Stazione centrale a Milano”. Non è un caso che non sia passato lo ius soli (prima gli italiani), che sotto elezioni il Pd abbia bloccato l’iter sulla riforma dell’ordinamento penitenziario che era in dirittura d’arrivo (un regalo per i delinquenti). Non è un caso che di eutanasia non si parla se non quando Marco Cappato decide di farsi processare. “Ciascuno cresce solo se sognato”, diceva Danilo Dolci: la politica sembra non sognarla più nessuno e lei non sogna noi. Siamo fermi al palo ed essere fermi significa regredire.

Non riesco a essere ottimista. Non credo che si sia avviato un reale processo per abbattere il muro del proibizionismo. Se pensiamo che in Italia ha difficoltà a essere prodotta e diffusa la cannabis a uso terapeutico che risponde a un criterio di necessità, non riesco a immaginare come la cannabis a uso ricreativo possa avere un destino migliore. È ancora troppo difficile far digerire l’utilizzo di parole come “ludico” e “ricreativo” associato a sostanze stupefacenti; ovviamente la realtà dei fatti è totalmente diversa, le sostanze stupefacenti sono diffuse a livello capillare e la loro qualità è resa pessima e dannosa per la salute dal controllo delle mafie che devono guadagnare e non hanno alcun interesse a salvaguardare la salute pubblica. Mi sento di condividere quanto Pannella diceva riguardo al proibizionismo; si tratta di parole universali, che valgono per qualsiasi divieto arrivi dall’alto e che intenda bloccare una prassi che invece è largamente diffusa: “Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il ‘colpevole’ e lo colpisce a morte”.
Intervista di Agnese Rapicetta
Foto di Barbara Ledda