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Un mondo a colori

Un interesse sempre maggiore verso ciò che è naturale, bio, eco, green porta le aziende ad adattarsi alle richieste dei consumatori. Questo riguarda il settore alimentare, quanto quello medico, edilizio e dell’abbigliamento. È in crescita la ricerca di capi tinti con coloranti vegetali e i produttori usano la fantasia per accontentare tutte le esigenze di mercato. Vengono usati i carciofi per conferire ai pantaloni un bel verde scuro e le scorze di melograno per dare una nuance rossa alle gonne. Sono scarti di lavorazione di prodotti agricoli, perché, se dev’essere ecologico lo dev’essere tutta la filiera.

L’arte di tinteggiare le stoffe viene da lontano, furono, infatti i Fenici i primi popoli a colorare tessuti, in quanto avevano scoperto come ricavare un colore da un mollusco: la murice.

Veniva spremuto, mescolato al sale e messo al sole per tre giorni. Il succo estratto veniva messo in recipienti in cui s’immergevano i drappi da colorare. Così, ricavavano la porpora, che vuol dire: rosso. Le tonalità andavano dal rosa pallido al viola intenso a seconda del tipo di tessuto e dai tempi d’immersione.

Le richieste erano tantissime, solo che per ottenere un chilo di liquido occorrevano 60 mila molluschi e li trovavano lunghe le coste del Libano e della Siria. Un lavoro meticoloso e dai ricavati eccellenti.

Dal rosso all’indaco le persone hanno sempre amato indossare capi colorati che abbondavano negli ”armadi” delle donne aristocratiche: abiti per le festività e abiti per l’uso quotidiano. Poche cose erano di colore bianco. Fra le tonalità più ricercate oltre al rosso c’era il blu, ottenuto dall’indaco.

Un composto organico che si ricava dalle foglie della pianta di Indaco tinctoria e si presenta come una polvere color azzurro scuro dall’alto potere colorante. Si ottiene dalla macerazione di foglie in acqua e calce o ammoniaca, successivamente ossidate all’aria. È leggermente tossico. Si tratta di un pigmento naturale noto in Asia già 4000 anni fa, conosciuto in Europa da quando Marco Polo lo portò dall’Oriente.

Il nome deriva da India, che da sempre ne è stato il primo produttore e utilizzatore. Le attività tintorie indiane erano appannaggio esclusivo di una casta che si occupava della coltivazione e dell’estrazione dell’indaco e che si chiamava Nilari (dal nome hindu del colore blu).

In realtà, l’uso di questa colorazione era già nota in Egitto, come dimostrano alcuni ritrovamenti nelle mummie.

Giunge in Europa dopo il 1500 e in Italia si diffonde soprattutto in Toscana e nelle Marche, dove veniva utilizzato per tingere le stoffe preziose destinate a sovrani e nobili.

Oggi questa colorazione naturale in Occidente è del tutto sostituita dalla tintura di sintesi chimica. Questo pigmento pregiato è molto difficile da trovare naturalmente, motivo per cui, il più delle volte è sostituito con l’indaco artificiale.

Esso è stato inventato da Baeyer nel 1870 ed è stato usato a partire dal XX secolo. Viene fabbricato mediante i derivati dell’indaco e dell’anilina. Una volta asciutto ha l’aspetto di una polvere finissima, che forma solo piccoli grumi. Diluito forma una pasta fluida leggermente polverosa, ha bisogno di una media quantità di olio. È una tinta molto intensa, questo pigmento naturale è brillante e resistente nel tempo, per questo era rinomato nell’industria tessile, in particolare per la colorazione dei blue-jeans.

È il colore usato nelle regioni del Sahel e della Mauritania, come simbolo di prestigio per le tuniche. Si tratta del colore nobile per eccellenza. Gli uomini mauritani usano questa polvere blu anche per colorarsi la pelle e perché sembra avere effetto protettivo dal sole. A questo si deve il nome di ‘uomini blu’.

Col tempo i metodi di estrazione del colore sono cambiati, per fortuna e i poveri molluschi sono stati lasciati in pace.

Per tingere i tessuti di rosso si usava la robbia, nota anche come Manjishta, è una polvere sottilissima ottenuta dalle radici di Rubia Cordifolia, una pianta che si sviluppa in India ed in alcuni territori dell’Himalaya che da secoli è impiegata come pianta medicinale nella tradizionale medicina ayurvedica.

La Manjistha, in particolare, è apprezzata per la sua capacità di purificare il sangue, tanto che il termine in sanscrito viene tradotto come “rosso vivo/rosso brillante”, ad indicare proprio l’affinità con il sangue ma anche la sua particolare colorazione.

Il medico Charaka, nonché autore del Charaka Samhita (il più antico testo di medicina ayurvedica), classificò la robbia come un’erba varnya, ovvero illuminante per la pelle, ma anche capace di ridurre la febbre.

La Rubia cordifolia è stata da sempre usata per il suo potere tintorio conferendo alle stoffe un bellissimo color rosso, rappresentando così un’ottima fonte economica per i paesi di origine, che commercializzavano il suo pigmento rosso come colorante naturale in Africa, in Asia ed in Europa.

Le radici si raccolgono dalla pianta adulta e vengono essiccate e tagliate in piccoli che pezzi si lasciano

poi a macerare in acqua calda per alcune ore. Il filato da tingere viene lasciato a bagno nell’acqua colorata con l’aggiunta di un agente fissante, come il sale o il cremor tartaro.

Si immerge il filato nella vasca calda a 80° e lo si lascia in immersione per diverse ore. Si risciacqua e si asciuga all’aria aperta.

La robbia è una pianta rampicante che può raggiungere una lunghezza di circa 3 metri, è caratterizzata da una corteccia di colore rosso e da lunghi steli molto legnosi alla base. Le foglie sono a forma di un cuore, mentre i fiori sono piccoli e gialli, simili a stelline.

La robbia veniva impiegata sia in passato che ai giorni nostri nella colorazione naturale della lana soprattutto, le sue capacità tintorie sono dovute ad alcuni composti contenuti nelle radici: la purpurina e l’alizarina, un glicoside colorante rosso, che viene sfruttato anche per tingere i capelli, conferendo tonalità variabili dal rosso freddo al rosso più caldo e ramato.

L’alizarina è apprezzata anche per la sua azione antibatterica, per questo motivo la polvere di robbia risulta utile nel trattamento della pelle e del cuoio capelluto infiammato. Viene usata per dermatiti ed eczemi. La polvere vanta anche ottime capacità illuminanti e rigeneranti, utili in caso di pelle matura, spenta e secca.

La robbia è stata introdotta nel 1812 in un piccolo terreno di Scafati, coltivata in tutta la provincia, nel 1853 è arrivata ad occupare più di 4.000 moggia di terreno e nel 1866 nell’intera provincia salernitana se ne producevano circa 40.000 quintali.

Ma il rosso si ricavava anche da Ceasalpina Brasiliensis, Carthamus tinctorium (o falso zafferano) e Bixa orellana; mentre il giallo si ricavava dalla camomilla, dalla ginestra, dal gelso, dalla betulla, dalla curcuma; per tingere di marrone usavano té nero e caffè, tarassaco, corteccia di quercia e mallo di noce.

Nella filiera tessile le potenzialità di recupero delle tinture naturali sono strettamente legate all’uso delle fibre naturali, dalla lana alla seta, dal lino alla canapa fino a tessuti meno usuali come quello di bambù e di ortica. Solo le fibre di origine vegetale mostrano meglio la tinta.

La canapa ancora una volta la fa da padrona, immersa nel colore desiderato accontenta l’ampia clientela: per avere un borsellino viola oggi si usa l’Hibiscus, se si vuole una borsa gialla il pigmento si ricava dalle dalie e per ottenere il verde bastano foglie di menta piperita e foglie di pesco.

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