Un “decreto simbolico” per rendere illegali gli eventi illegali; non vi stiamo raccontando l’ultima barzelletta in voga negli ambienti giuridici, bensì il proposito del primo atto varato dal governo Meloni, ad inizio settimana. La priorità dello scorso week end in capo al nuovo esecutivo era quella di sgomberare qualche centinaio di persone che si sono ritrovate per ballare in un capannone abbandonato alle porte di Modena in occasione del Witchtek, il free party tekno che ogni anno si tiene durante il ponte di Ognissanti.
L’irrazionale clamore mediatico che si è generato intorno all’evento, alimentato in larga parte dal pregiudizio e dallo stigma che da anni i media generalisti riservano alla scena rave e dalle reazioni spropositate di diversi esponenti politici, è stato usato dal governo come pretesto per giustificare l’utilizzo della decretazione d’urgenza e introdurre nel codice penale “il reato di invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”.
Ove siano presenti più di cinquanta persone, chiunque organizzi o partecipi alla festa rischia una pena dai 3 ai 6 anni di carcere, una multa dai 1.000 ai 10.000 euro e l’applicazione delle misure di prevenzione personali contenute nel “Codice delle Leggi Antimafia”, oltreché la confisca dei mezzi e dei sound.
In pratica, questo atto decreta l’approccio intollerante e repressivo, peraltro di dubbia costituzionalità visto che l’applicazione non si limiterebbe ai free party, nei confronti di un fenomeno culturale, sociale, nonviolento e spontaneo; lo stesso approccio, a noi noto, della war on drugs che criminalizza le persone che usano sostanze e fallisce nel contenere una facoltà umana praticata da milioni di persone.
È perciò fondamentale che, dopo il varo del decreto “anti-rave”, chiunque si definisca antiproibizionista si schieri al fianco del mondo underground, indipendentemente che lo frequenti o meno, e faccia quello che fa sempre: smontare le ipocrisie del proibizionismo e interrompere la macchina del fango nei confronti delle persone che consumano stupefacenti. Soprattutto perché i festival e i free party offrono uno spaccato di quella società utopica che ha smesso di nascondere e di giudicare l’utilizzo di sostanze (legali o illegali che siano), che prova a uscire da decenni di disinformazione e che, a differenza di quella in cui viviamo, sta cercando davvero di fare pace col piacere.
È proprio quest’ultimo “affronto alla morale” che si vuole sedare con la tolleranza zero, perché chi sfida il monopolismo delle sostanze legali e non sceglie l’alcol come droga d’elezione viene etichettato come un criminale, un drogato, un tossicodipendente. Sono costretti a decretare d’urgenza lo stigma e il pregiudizio, perché se l’opinione pubblica scoprisse la realtà crollerebbe il castello di bugie con cui giustificano la repressione nei confronti delle persone che usano stupefacenti e si arriverebbe paradossalmente a riconoscere che, sotto diversi aspetti, una festa illegale crea un contesto di consumo “più sicuro” rispetto a quello proposto dalla legalità dello Stato, dove, ad esempio, viene disconosciuta l’efficacia delle politiche di riduzione del danno.
I ravers dimostrano l’impostura del monito “la droga è morte” e l’esistenza di tecniche per limitare i rischi derivanti dall’assunzione; come sarebbe possibile altrimenti che centinaia di persone in stato di coscienza non ordinario ballino e socializzino per giorni? Far passare questa lettura del fenomeno imporrebbe altresì di dover riconoscere il ruolo indispensabile degli operatori dei servizi di prossimità, che non avallano il consumo come troppo spesso si afferma, ma sono un presidio che garantisce la fruizione del diritto alla salute, secondo gli stessi principi cardine che assicurano, nel giusto processo, il diritto alla difesa anche del reo confesso.
Le equipe delle unità di strada sono una presenza che si rivela fondamentale, sia nelle città dove abitualmente operano, sia negli eventi temporanei dove il consumo di sostanze è diffuso, perché forniscono tutto ciò che spesso non si trova nei club o nelle discoteche, come materiale sterile, acqua e bevande analcoliche gratis, snack, zone di decompressione, materiale informativo, professionisti socio sanitari pronti ad ogni tipo di intervento e anche l’analisi gratuita ed anonima delle sostanze, accompagnata da un counselling personalizzato ed approfondito.
L’offerta di questi servizi, osteggiata dai proibizionisti e sottofinanziata dalle istituzioni, dal 2017 rappresenta un livello essenziale di assistenza (LEA) di comprovata efficacia nella prevenzione dei consumi problematici, nella riduzione delle reazioni impreviste e nella costruzione di modelli di utilizzo consapevoli e responsabili. Creare una cultura del consumo, cosa che peraltro abbiamo già sperimentato con l’alcol, significa non solo diffondere le conoscenze in materia di riduzione del danno, ma addirittura innescare delle dinamiche sociali di auto mutuo aiuto, talvolta ostacolate dalle norme.
Nei rave vige la legge non scritta, perché in Italia ancora manca, del “buon samaritano”, cioè quel soccorso fornito a persone in overdose o in difficoltà: indipendentemente che tu la conosca o meno, se vedi una persona che sta male dopo aver consumato droghe è tuo dovere adoperarsi perché venga immediatamente assistita da personale specializzato. Purtroppo, sotto l’egida dello Stato, lo stesso aiuto fornito può trasformarsi in un boomerang, perché si incorre in perquisizioni corporali e domestiche ed interrogatori volti a provare che l’accompagnatore non sia un pusher.
Concludendo, i free party non creano problemi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica, a differenza di quanto afferma l’articolo del codice penale appena varato dal governo. Al contrario, sono come sempre le leggi sulle droghe in vigore a mettere a repentaglio quei tre principi dell’ordinamento giuridico, che sarebbero meglio tutelati se i legislatori, per una volta, decidessero di non giudicare i fenomeni, sociali o culturali che siano, ma, invece, di comprenderli.
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