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Se Mantovano va a San Patrignano

Il Sottosegretario Mantovano è andato negli scorsi giorni a San Patrignano a trovare la comunità terapeutica per le tossicodipendenze più famosa d’Italia, dove ha incontrato circa 800 ragazze e ragazzi che stanno affrontando il loro percorso di recupero. Insieme a lui il Capo del Dipartimento delle Politiche Antidroga Paolo Molinari e il consigliere Ugo Taucer.

Secondo quanto riportato da Rimini Today, il Sottosegretario ha sottolineato come questa visita sia la prima di una lunga serie di visite che comprenderanno altre comunità terapeutiche per aprire: “un canale di comunicazione e confronto con questo mondo”. Fino a qua tutto bene, se ci mettiamo anche i numerosi progetti che San Patrignano porta avanti come la formazione professionale che aiuta il reinserimento lavorativo dei ragazzi in comunità ed un ulteriore progetto, chiamato “Wecare 4.0”, che consisterà nell’educazione alla prevenzione dove saranno coinvolti circa 20.000 studenti di tutta Italia.

Tutto bene, dicevamo, se non fosse che Mantovano continua a perpetrare la retorica del ‘modello San Patrignano’, che secondo lui rappresenta: “la riuscita di una esperienza pionieristica, nata 45 anni fa, modello a cui ispirarsi per affrontare la grande problematica delle tossicodipendenze”. Evidentemente il Sottosegretario si è perso i primi anni di San Patrignano, dove i metodi utilizzati erano coercitivi e si diramavano intorno ad un concetto quasi religioso che vedeva Vincenzo Muccioli guru della struttura in questione: sarà mai che finanziare questa tipologia di comunità sia quantomeno utile al mantenimento dello status quo?

Le nuove ricerche sociologiche e scientifiche ci fanno propendere per un cambio di assetto, anche rispetto ai finanziamenti, per quanto concerne la prevenzione e il recupero delle persone tossicodipendenti: l’implementazione della riduzione del danno, inserita nei LEA, dovrebbe essere il faro di una nuova politica sulle sostanze stupefacenti che ponga realmente al centro la persona. La comunità può essere utile, ma non in tutti i casi: soprattutto, vista la legge 309/90, spesso capita che in comunità ci vadano persone che non hanno problemi di tossicodipendenza, ma consumatori o piccoli spacciatori. La prevenzione deve partire dall’ascolto delle associazioni del terzo settore che da sempre si occupano di questo tema, con un approccio laico e anti-stigmatizzante, quindi evidentemente non paternalistico.

La visita di Mantovano può fare il palio con le considerazione fatte qualche mese fa dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro, che ha proposto di spostare la popolazione detenuta tossicodipendente all’interno delle comunità di recupero. Questa proposta è stata bloccata dal CNCA, che con una conferenza stampa alla Camera ha sottolineato come ‘le comunità non siano surrogati del carcere’, e che sarebbe anacronistico spostare le persone da un centro di detenzione ad un altro: infatti la popolazione tossicodipendente carceraria è 1/3 e l’obbligo di costruire nuove strutture per ospitare i detenuti sarebbe praticamente certo.

L’aiuto deve partire dal principio, tramite una reale educazione che non può passare dalla paura: in questi anni il metodo adottato, spendendo milioni di euro, è stato quello dei cani nelle scuole. I giovani hanno bisogno di socialità, cultura e verità: dire pedissequamente che se si usano droghe si va in carcere è proprio il modo per rendere granitici comportamenti al limite della legalità. Ma forse è proprio questo che vogliono?

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