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Ilaria: un altro caso di arresto per cannabis fuori dal nostro paese

Ilaria De Rosa è una giovane ragazza di Treviso che di lavoro fa la hostess, una di quelle attività che ti mette a confronto con numerose culture e persone, per questo forse ci si sente sempre un pò al sicuro: la conoscenza dell’altro è una scoperta, ma in questo caso l’altro di Ilaria è una legge repressiva e criminale. Ilaria adesso in arresto in Arabia Saudita: accusata di detenzione e spaccio internazionale di stupefacenti e attualmente detenuta in un carcere a 45 chilometri da Jeddah. La vicenda della giovane è controversa: deteneva o no sostanza stupefacente, in questo caso cannabis, per uso personale? L’imboscata è stata fatta per un controllo certo su qualche amico che era con lei? Domande senza risposta al momento, se non quelle che ha dato in questi giorni il Console Italiano in Arabia Saudita che ha riportato le sensazioni di Ilaria e il fatto che lei gli avrebbe detto di non aver fatto uso di alcun tipo di sostanza.

La paura è tanta: in Arabia Saudita non esiste alcuna differenza tra possesso e spaccio di droghe, e le pene vengono stabilite in base alla legge islamica, intrisa di spirito religioso; l’assenza di laicità dell’Arabia Saudita, così come avviene in numerosi altri luoghi del mondo, non permette di vedere in modo scientifico e distaccato il tema delle sostanze stupefacenti, rendendo questi paesi completamente intolleranti fino ad adottare in alcuni casi la pena di morte, toccata qualche settimana fa da Tangaraju Suppiah, impiccato a Singapore per aver traffico un chilo di cannabis. Una morte, una vita che poteva avere una speranza: una condanna indicibile per un reato senza vittima.

La vicenda di Ilaria, al momento detenuta in Arabia Saudita, ci ricorda come non possiamo più ignorare i danni che le leggi sulle droghe fanno, sia in Paesi in cui è ancora adottata la pena di morte per reati correlati alla droga sia in Paesi che dovrebbero essere più liberali e progressisti come l’Italia. Eh sì, perchè anche nel nostro paese i tassi di sovraffollamento delle carceri ci dicono che 1/3 dei detenuti è in carcere per reati connessi alle droghe: molti sono immigrati, vittime della criminalità organizzata che sfrutta la loro povertà nell’indifferenza dello Stato. Il nostro paese inoltre soffre al pari di paesi illiberali delle carcerazioni preventive: accade a volte, arbitrariamente, solo per il possesso di pochi grammi che possono essere ritenuti consumo personale.

Sono 35 i Paesi che nel 2021 hanno mantenuto la pena di morte per una serie di reati legati alle droghe, secondo il Rapporto “Death Penalty For Drug Offences: Global Overview 2021” dell’ong Harm Reduction International. Le esecuzioni per reati di droga confermate o presunte hanno avuto luogo in sei paesi: Iran, Arabia Saudita, Singapore, oltre a Cina, Corea del Nord e Vietnam; ovviamente le cifre non sono corrette, perchè essendo questo un ‘fenomeno sommerso’ è difficile avere dati chiari ed un’osservazione veritiera. Quello che è certo, sempre secondo i dati dell’ Harm Reduction International (HRI), è che negli ultimi 3 anni le condanne a morte per sostanze stupefacenti nel mondo sono aumentate. 

Nel 2020 sono state 30 le esecuzioni a morte, diventate 131 nel 2021 e addirittura 285 nel 2022: un aumento percentuale vertiginoso, che segna un trend negativo di questa pratica adottata ai reati per droga. Infatti viene ignorata l’adozione di una nuova risoluzione (2021) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per una moratoria sull’uso della pena di morte, che ha avuto il sostegno record di 125 paesi (rispetto ai 123 del 2020), le esecuzioni note per reati di droga sono tornate a superare il 30% delle esecuzioni globali: la cifra più alta registrata dal 2017. 

Le Convenzioni Internazionali vanno modificate verso un’apertura da un nuovo approccio nel trattare il tema delle sostanze, e si deve impedire la carcerazione per possesso di sostanze in qualunque paese del mondo, in particolare per la cannabis.

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