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Viaggio in Uruguay, dieci anni dopo

“Nel gennaio del 2011 la polizia ha scoperto la mia coltivazione domestica per uso personale. Fui arrestata e rimasi in carcere fino al maggio di quell’anno. Grazie al dibattito e al rumore che fece il mio arresto, si è cominciato a discutere della legge che oggi è in vigore qui in Uruguay”. A parlare, nel corso di un video documentario realizzato dal giornale brasiliano Folha de S. Paulo, il sesto di una serie di episodi sugli effetti delle politiche sulle droghe nel mondo, è Alicia Castilla, attivista e volto simbolo del percorso che ha portato il piccolo Stato sudamericano a diventare il primo Paese al mondo a legalizzare la produzione, l’uso e la vendita di cannabis nel 2013

A volere la legge, l’ormai mitica 19/172, numeri che sono entrati a pieno titole nella storia delle politiche sulle droghe, fu il presidente di allora, l’ex guerrigliero tupamaro Pepe Mujica, oggi 87enne, che decise di mettere in campo questa rivoluzionaria (per l’epoca, ma forse anche per i nostri giorni) iniziativa legislativa, volta ad inasprire la lotta al narcotraffico e ai problemi di sicurezza che in quegli anni stavano colpendo in maniera particolarmente feroce l’Uruguay. 

Oggi, poco più di dieci dopo quel fatto storico, è tempo di bilanci. Ma prima un po’ di contesto. Con i suoi quattro milioni (scarsi) di abitanti, l’Uruguay è uno dei Paesi più piccoli di tutta l’America Latina. È sicuramente famoso per l’entroterra verdeggiante e le sue spiagge spettacolari, motivo per il quale è meta di turismo di massa da tutto il continente, oltre che dal Nordamerica e dall’Europa. Rispetto ai suoi Paesi confinanti, i particolare i “giganti” Brasile e Argentina, ha oggi un livello di criminalità molto basso e una qualità della vita elevata, vicina agli standard europei, tanto da essere spesso soprannominata “la Svizzera” del Sudamerica. 

È dunque in questo contesto che nove anni fa è entrata in vigore la legge sulla legalizzazione della cannabis. “In realtà, più che di legalizzazione o depenalizzazione – spiega ancora Alicia Castilla – sarebbe più corretto parlare di regolamentazione. Oggi, in Uruguay, sappiamo che se qualcuno possiede e coltiva un massimo di sei piante in fiore o 40 grammi di prodotto pronto per il consumo, è protetto dalla legge”. 

La legge permette l’accesso alla cannabis mediante tre canali, come spiega sempre nel corso del documentario pubblicato in Italia da Internazionale, Martin Rodriguez, direttore dell’Istituto per la regolamentazione e il controllo della cannabis (Ircca): “Ci sono decine di migliaia di persone che hanno scelto di intraprendere uno dei percorsi per il consumo legale di cannabis, cioè la coltivazione in casa, l’iscrizione ai cannabis club o, ed è il percorso più popolare, l’acquisto nelle farmacie”. 

In altre parole significa che, secondo i dati dell’Ircca, ci sono circa 60mila persone (il 2,5% della popolazione uruguayana) che si sono svincolate completamente dal mercato illegale. Ciascuno di essi deve registrarsi presso il ministero della Salute e scegliere, in via esclusiva, uno dei tre canali di approvvigionamento. Chi sceglie l’acquisto in farmacia, può comprare 10 grammi alla settimana e fino a un massimo di 40 grammi al mese. Il prezzo? 6,5 euro per una bustina da 5 grammi. 

Sembrerebbe il paradiso, ma in realtà non è tutto oro quel che luccica. Intendiamoci, se pensiamo al Medioevo nostrano siamo anni luce avanti, ma le problematiche non mancano. Sono solo cinque le aziende, a capitale misto pubblico e privato, che producono la cannabis che si trova nelle farmacie. Le licenze sono costose e non è consentito fare pubblicità, cosa che tiene lontani i piccoli produttori. 

Spiega Guillermo Amandola, proprietario di un cannabis club a Salinas, città costiera situata a pochi chilometri a est della capitale Montevideo: “La regolamentazione è un proibizionismo mascherato, perché favorisce alcuni a scapito di altri. Io sono uno di quelli che è riuscito a cogliere l’occasione quando ci hanno dato questa specie di libertà condizionata”. Nei club, composti da 15 fino a 45 soci, si possono coltivare al massimo 99 piante. Per proteggersi dai furti frequenti, molti sono costretti a sostenere costi di sicurezza molto elevati e tutto questo incide molto sul prezzo finale, ben superiore rispetto a quello delle farmacie. Va detto, però, che i club offrono un prodotto migliore e più variegato, cosa che ha consentito loro di sopravvivere alla concorrenza delle farmacie stesse, attive dal 2017.

E qui il problema è un altro, come conferma Sergio Redin, farmacista intervistato dai giornalisti della Folha: “La grande questione, ora, è la mancanza di prodotto. Oggi la domanda supera l’offerta”. In tutto il Paese le farmacie autorizzate sono 17. E, come spiega Rodriguez dell’Ircca, sul tavolo ci sono diversi temi: “La disponibilità del prodotto, la produzione stessa e la copertura della rete”. Parliamo spesso di imprese che esportano tonnellate di cannabis all’estero (per uso medico, ad alto contenuto di Thc), ma che non riescono a rifornire adeguatamente le farmacie. “Stiamo emettendo più licenze – continua Rodriguez – per far entrare nuove aziende nel sistema. Quando avremo una maggiore produzione, potremo aumentare il numero di farmacie. A quel punto vedremo incrementare anche il numero di persone registrate per l’acquisto di cannabis legale”.  

Quello della produzione che non soddisfa pienamente la domanda non è l’unico problema sollevato da coltivatori e consumatori. C’è il tema della registrazione obbligatoria, come rileva Alicia Castilla: “Si tratta di una forte ingerenza dello stato nella vita privata delle persone”. Il ragionamento di Eduardo Blasina, proprietario del Museo della Cannabis di Montevideo, è molto semplice: “In Uruguay, come in ogni parte del mondo, posso comprare dieci litri di whisky, tornare a casa, bermeli tutti d’un fiato e ammazzarmi. Ma allora perché con la cannabis bisogna registrarsi e inserire il proprio nome in una banca dati?”. 

C’è poi il problema del mercato nero. O meglio, quel che rimane del mercato nero, dato che tra il 2014 e il 2018 il narcotraffico è stato prosciugato, perdendo 22 milioni di dollari all’anno. Chi si rivolge, dunque, al mercato illegale? Chi supera il limite mensile di 40 grammi, chi è alla ricerca di altre sostanze e soprattutto quella enorme massa di persone che ogni giorno entra nel Paese per godere delle sue bellezze e delle sue peculiarità: i turisti, ad oggi esclusi dal mercato legale della cannabis. 

Il paradosso è che molti di essi, specialmente negli ultimi anni, arrivano in Uruguay attratti proprio dalla nuova legislazione sulla cannabis. E l’ulteriore paradosso è che, nonostante per loro l’acquisto e il consumo siano preclusi, ottengono la cannabis senza alcun problema. “Magari comprandola da un parcheggiatore o da una cameriera d’albergo”, racconta Alicia Castilla. L’Uruguay, di fatto, è un Paese turistico, che vive di turismo, ma che non vuole un turismo cannabico. Non lo vuole, ma già lo ha. E non fa moltissimo per scoraggiarlo. Questo è sicuramente un aspetto su cui fare un po’ di chiarezza. 

Ci sono poi altre questioni, dallo squilibrio lucrativo dei guadagni delle aziende che producono ed esportano cannabis a scopo industriale e terapeutico all’impossibilità di un sistema bancario e finanziario legato a doppia mandata agli Stati Uniti di agevolare la nascita di imprese e soprattutto di piccoli imprenditori. Ma in definitiva possiamo dire – e lo dicono tutti i protagonisti di questo racconto – che l’Uruguay ha avviato un cammino, ha intrapreso una strada e non tornerà indietro, diventando un esempio, un paradigma per tutto il mondo. 

Il processo per arrivare ad una piena maturazione è lento ma sta funzionando. Da nove anni a questa parte esiste un protocollo per il consumo e la vendita di cannabis, nessuno può essere perseguito o arrestato se lo rispetta. Chiunque può coltivare cannabis senza temere il giudizio morale di questo e quel giudice, di questo o quel politico, di questo o quel tribunale. E scusate se è poco. 

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