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Cordai e contadini: l’ultima ‘merdina’ che ha fatto il Signore

Castelponzone è una frazione del comune di Scandolara Ravara, in provincia di Cremona e rientra nel circuito de “I Borghi più Belli d’Italia”. Si lascia giù l’auto e lo si gira a piedi, è piccolo e in un’ora lo si può ammirare tutto. Si può passeggiare tra le vie acciottolate ed i portici. C’è la locanda dei cordai e si contano poco meno di 400 abitanti. Posto tra il Mantovano, il Cremonese e il Parmense, il paese rappresenta un esempio di recupero della dimensione rurale. Le origini risalgono ai romani, ma da segnalare per il nostro racconto è l’anno 1456, quando i documenti storici attestano che erano permessi il mercato settimanale e una fiera; si sviluppano di conseguenza l’artigianato e i commerci, pur rimanendo, l’agricoltura l’attività principale della popolazione, diffondendosi così il mestiere dei cordai.

Seminano la canapa, la raccolgono e ci producono le corde. Per questo nell’aprile 2014 è stato inaugurato il Museo dei Cordai, nato con  l’intento di “fermare” la memoria storica di coloro che, per quasi duecento anni si sono dedicati alla lavorazione della canapa.

Le corde venivano realizzate con una tecnologia semplice e ingegnosa, basata sull’uso di una grande ruota e su un attrezzo scanalato in legno, utilizzato per la torcitura dei fili.

La canapa, veniva coltivata in loco, poi in seguito acquistata nelle zone di maggior produzione, fino alla sua sostituzione con il sisal.

La grande ruota a manovella, fulcro dell’esposizione, permette di osservare e sperimentare direttamente la confezione della corda a partire dai singoli fili. Gli ultimi anziani cordai, che possiedono ancora i segreti dell’abilità  manuale del lavoro, illustrano tutte le fasi del processo.

Nel museo vi è raccolta una rassegna completa degli attrezzi usati nelle diverse epoche e un vasto campionario di manufatti in corda: dai più comuni per gli usi agricoli, come per i finimenti dei cavalli ai cordami più pesanti, oppure quelli impiegati in marina come le grosse gomene e le sartie destinate alle navi.

Completano l’esposizione alcune fotografie in bianco e nero che riprendono i cordai durante la loro attività ed alcuni filmati a scopo divulgativo resi possibili dagli ultimi operai.

L’esistenza di questo museo lo si deve al fatto che fino alla seconda guerra mondiale a Castelponzone c’era un grosso centro di produzione della corda, fabbricata a domicilio da persone che lavoravano a cottimo.

I proprietari terrieri, erano pochi e comperavano la canapa a balle a Bologna, Ferrara, Rovigo e la davano al cordaio, che la lavorava (pettinatura, filatura, lucidatura) e riportava al padrone, pagato a seconda del peso.

Le corde venivano poi vendute a Cremona, Brescia, Parma o nei grossi paesi agricoli (Casalmaggiore, Piadena), a droghieri o a sellai, che poi provvedevano a rivenderla ai contadini delle campagne.

La canapa veniva data in base al numero dei componenti il nucleo famigliare: 50, 70, 100 chili. Le famiglie numerose, facevano la corda grossa, per la marina, la cui lavorazione richiedeva maggiore forza fisica.

La lavorazione impegnava tutta la famiglia. Per far la corda occorrevano almeno tre persone: il cordaio per filare, una persona per girare la ruota (menà la ròoda) e un’altra per tenere il gancio (garbél). Vi erano poi i preparatori (pettinatura della canapa) e coloro che provvedevano alla rifinitura (lucidatura della corda).

Il lavoro era così suddiviso: l’uomo (il cordaio) faceva i lavori più specializzati e più faticosi, la filatura e la lucidatura. I bambini (putéi) giravano la ruota e tenevano il gancio. Le donne a volte giravano la ruota, ma per lo più stavano a casa a spinà (pettinare la canapa con lo spinàs), oltre che a fare i lavori domestici e a preparare i pasti.

Gli orari di lavoro erano pesantissimi. Di norma ci si alzava alle due di mattino per preparare la canapa (pettinatura); alle prime luci dell’alba si andava a filare lungo il sentéer, dove il lavoro durava fino al tramonto. L’orario di lavoro, secondo le stagioni, variava dalle 12 alle 18 ore al giorno. L’impiego dei bambini era generalizzato sin dalla più tenera età; a partire anche da sei anni venivano messi per l’intera giornata (dall’alba al tramonto) a girare la ruota, in ogni stagione con il freddo e con il caldo; se erano troppo piccoli, gli si mettevano delle pietre sotto i piedi perché potessero arrivare alla ruota. Era assai frequente che i bambini non potessero andare a scuola, per cui si registrava una elevata percentuale di analfabetismo.

Il pranzo, di solito una minestra, veniva consumato all’aperto, sul luogo di lavoro, dove veniva portato dalle donne o dalle bambine. Gli altri due pasti della giornata venivano consumati in casa, che consisteva in sardine con cipolle condite con l’aceto (l’olio era troppo caro!) e polenta.

I guadagni dei cordai sono sempre stati sempre molto bassi: la paga verso il 1912-1914 era di due lire al Kg; in seguito è stata riabbassata dai padroni: fra le due guerre oscillava tra 1,20-1,50 lire al Kg. In otto ore di filatura si fanno circa 5 Kg di corda, sicché si può calcolare che un cordaio guadagnasse, con il suo lavoro e con quello di tutta la famiglia, circa 7-8 lire al giorno. Uno stipendio da fame, che permetteva a mala pena la pura sopravvivenza.

Si dice che i cordai e i contadini sono l’uultim merdìn che a fàt el Signùur (l’ultima merdina che ha fatto il Signore), ma il cordaio stava peggio del contadino, perché aveva più o meno lo stesso guadagno, ma lavorava il doppio (non produceva generi alimentari e doveva comprarseli). Nessun cordaio sotto padrone è riuscito a metter da parte dei soldi; rarissimi quelli che ci sono riusciti, ma roba di poco conto e privandosi di tutto: un paio di pantaloni lo si faceva aggiustare dieci volte!

I cordai vivevano in affitto, in una spaventosa situazione di sovraffollamento. Una  famiglia viveva in una stanza, i più fortunati in due. In un appartamento di 3-4 stanze abitavano 30 persone.

Le famiglie di cordai erano numerose (da quattro a dodici figli): in una strada c’erano 50-60 bambini. Talvolta i figli sposati stavano in famiglia e spesso andavano a sistemarsi presso la famiglia d’origine (nella casa vicina o nella stanza vicina), perché si tendeva a restare uniti per lavorare tutti assieme. Di norma comandava il nonno, che amministrava i soldi. Tra contadini e cordai ci si imparentava: le figlie dei contadini che sposavano i cordai abbandonavano il lavoro dei campi e aiutavano il marito nella lavorazione della corda.

La domenica i cordai andavano all’osteria a giocare a carte. La grossa festa dei cordai era il lunedì pomeriggio, quando verso sera si smetteva di lavorare e si faceva la bréenta (che è propriamente la damigiana da cinquanta litri). Si dice che il lunedì si faceva festa, non si lavorava: in realtà si lavorava solo 10 – 11 ore e verso sera ci si radunava in due o tre posti, per mangiare e bere. Si portava una damigiana di vino (c’erano anche i padroni), ci si sedeva con la scodella di vino e il pan biscotto, si cantava e si prendeva la sbornia. Oggi i prodotti tipici del posto traggono ispirazione dai piatti di una volta e sono: tortelli di zucca con sugo rosso ai funghi chiodini, salame del borgo (lavorazione in cui si usano tutte le parti del suino, con la giusta proporzione tra quelle magre e quelle grasse) e i Marubini con crema di Lambrusco.

Nel Museo sono previste attività didattiche per le scuole. I laboratori pratici si concentrano sulla storia, sulla realizzazione e sugli usi della corda.

Il Museo dei Cordai si trova in Via Buschini 9 ed è aperto da marzo a ottobre. Chiuso dal 15 luglio al 15 agosto.

Testo preso a prestito e completamente riadattato da http://www.borgodicastelponzone.it/museo/tecniche-dei-cordai/

 

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