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Quando in Italia tutti coltivavano la canapa…

Tra la fine di luglio e i primi giorni di agosto, la canapa aveva raggiunto la sua piena maturazione. Siamo nei primi anni Cinquanta del Novecento, in qualunque regione italiana, ove si coltivasse la canapa. La data precisa di raccolta veniva stabilita dal coltivatore in relazione all’andamento stagionale. Alcune varietà raggiungevano, in questo periodo, addirittura l’altezza di quattro metri. Dai canapai proveniva un profumo avvolgente, simile alla menta selvatica con un tono più secco, e i contadini con i loro falcetti a lama orizzontale, procedevano al taglio che doveva avvenire il più raso possibile. In verità, gli agricoltori più accorti avevano già provveduto da un paio di giorni a togliere le piante perimetrali dall’appezzamento, quelle più esposte al sole e al vento e, perciò giunte a maturazione prima delle altre. Una volta terminate le operazioni di taglio venivano lasciate sul terreno le piante femminili, che sarebbero state eliminate solo alla fine di settembre, dopo la maturazione del seme. Per questa ragione la festività mariana dell’8 settembre era definita la Madonna dei canaponi e, a tal proposito un vecchio adagio, recita: “Per la Madonna dei canaponi i semi buoni”.

La precisa e indispensabile funzione dei canapacci femminili era, infatti, quella di fornire all’agricoltore la semenza per la coltivazione dell’anno successivo, in gergo, quei lunghi steli venivano chiamati canapacci, per via del loro aspetto maestoso. Occorre precisare che per ragioni di praticità venivano coltivate aree ridotte per fornire direttamente la quantità di seme necessaria per l’anno seguente. Il seme doveva essere fresco, cioè, proveniente dall’ultimo raccolto, passato nei setacci e conservato in un luogo asciutto e ben ventilato. Le regioni di produzione classiche erano l’Emilia Romagna e il Piemonte.

La canapa tagliata veniva disposta in piccoli manipoli incrociati fra di loro, detti mannelli; dopo tre giorni dovevano esser rivoltati per favorire l’essiccazione da ambo le parti. In alcune zone i canapini erano soprannominati “ridarol”, in virtù di una loro costante allegria. Essi respiravano in mezzo al campo e così facendo assorbivano i principi attivi contenuti nelle infiorescenze della pianta che conferiva loro il buon umore.

I manipoli di canapa venivano poi sbattuti con vigore sul suolo, affinché perdessero le foglie e le infiorescenze. Naturalmente, in caso di pioggia l’operazione doveva essere rimandata ai giorni più assolati. Era assolutamente sconsigliato sbattere la canapa sul terreno umido o peggio ancora fangoso. Il lavoro era già gravoso di suo, se ancora aggiungiamo che, per favorire un migliore distacco delle parti superflue, doveva essere eseguito nelle ore più calde della giornata, è chiaro che si trattasse di un mestiere veramente estenuante, anche per le braccia più forti. Tant’è, che secondo alcune testimonianze diversi lavoratori masticavano dei semi di canapa che hanno proprietà analgesiche, proprio per sopportare maggiormente le fatiche della giornata.

Ma, a dare sollievo alla calura estiva, alla spossatezza e agli sforzi lavorativi c’era l’usanza di cantare.

Il lavoro nei campi era spesso accompagnato dai canti che venivano eseguiti con emissione di voce quasi forzata, gridata perché si udissero anche da lontano, per potersi così intrecciare con le ugole di tutti i lavoratori. Essi erano una vera e propria forma di comunicazione e si mescolavano ad altre grida, invocazioni, preghiere e incitamenti, non erano tipici solo delle campagne, ma anche delle risaie, delle vallate, delle vigne e dei campi di grano.

Dopo la battitura la successiva fase di lavorazione era costituita dall’impilatura. La canapa dopo esser stata al sole per tre o quattro ore si riuniva in coni verticali del diametro di circa tre metri, alla maniera delle tende dei Pellerossa d’America. All’esterno si ponevano i manipoli più lunghi in modo che fermassero una sorta di “camicia” protettiva in caso di pioggia. Fondamentale era la legatura in alto, che doveva essere molto solida in modo che la costruzione, pur provvisoria, potesse comunque resistere in caso di forti raffiche di vento. I contadini più esperti conoscevano ogni imprevisto e sapevano come arginare i problemi per non rendere vani gli sforzi di ognuno. Poi arrivava il momento della tiratura. Gli steli di canapa venivano suddivisi in base alla grossezza e lunghezza, in genere si formavano mannelli di tre gruppi: corti, medi e lunghi. Gli steli difettosi non venivano gettati, da essi si ricavava una canapa di qualità inferiore che proteggeva i mannelli più pregiati nella fase di costruzione delle zattere messe in ammollo nei maceratoi.

Con dieci mannelli si formava un mezzo fascio che veniva raddrizzato e appoggiato ad un altro oppure addossato a un albero. Il fascio era poi legato in tre punti, a ogni estremità e al centro, di solito con ramoscelli di salice. Con una falce si tagliavano le cime più sottili. Nella corte rurale, sempre meticolosa a non sprecare mai nulla, faceva in modo che gli scarti fossero utilizzati per accendere il fuoco del camino, della stufa o del forno per cuocere pane e focacce, il materiale di scarto veniva ritirato in una costruzione esterna alla casa che ospitava anche il pollaio o il mangime per gli animali da cortile.

I fasci venivano legati fra loro in numero variabile fra le 50 e le 100 unità in relazione alla dimensione per formare delle zattere da collocare nei maceratoi a metà agosto per l’affondamento. (Argomento del quale ho ampiamente parlato sul numero scorso).

Quindi, dopo l’estrazione dal macero, avveniva lo sfondamento, cioè lo scarico dei sassi dalle zattere, e poi ancora la lavatura e l’asciugamento, l’incasellamento, la scavezzatura, la gramolatura, l’agguazzamento, la messa in morello. E altre e altre operazioni ancora, di cui darò puntuale spiegazione sui numeri successivi fino ad arrivare alla stima e, infine, alla tanto agognata vendita col bene placito di tutti.

Terminato il grande impegno sui campi arrivava il momento più gradito, tanto atteso da grandi e piccini: la festa di fine estate; si “salutava” il termine dei lavori con un banchetto sull’aia, seguito da canti e balli accompagnati da un’orchestrina.

Al chiarore della luna antiche melodie, rime e ritornelli animavano le danze poco sofisticate della povera gente che, con gli abiti del quotidiano si divertiva al ritmo di trombe, pifferi, grancasse e fisarmoniche. La fisarmonica era lo strumento simbolo dei balli sull’aia, con la sua inconfondibile melodia e lo strusciare delle scarpe sui palchetti era la protagonista delle serate estive. Le danze popolari erano accompagnate da strumenti musicali diversi a seconda delle aree di appartenenza.

Il ballo popolare è una danza della gente comune, legato ai momenti di vita comunitari ed eseguita da ballerini non professionisti.

È da queste tradizioni che hanno origine i balli italiani: delle valli occitane, saltarella, tarantella, pizzica, quadriglia e la tammuriata.

Talvolta, a queste feste si univano anche i vicini, per condividere i manicaretti e l’abbondante vino. Era il momento per fare nuove conoscenze. D’innamorarsi.

Gettando così, il seme di una nuova vita famigliare.

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