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Tessere il filo della vita

Dopo averla coltivata ed essersene presi cura per mesi dal raccolto alla vendita, veniva il momento di tessere la canapa. “Dai Santi (1 novembre) all’Annunziata (25 marzo) tutti i dì una gran filata”. Così recitava un vecchio proverbio e si riferiva al lasso di tempo in cui la canapa veniva filata da mani esperte e quel sapere veniva trasmesso alle generazioni successive. Un lavoro prettamente femminile.

In quasi tutte le corti rurali al primo piano dell’abitazione esisteva la camera del telaio, grande, pesante di legno era veramente ingombrante, costituito da pesi, contrappesi, cilindri e pettini era azionato aiutandosi con gli appositi pedali. Le donne che filavano trattavano il fuso con somma disinvoltura. Con i fusi pieni si facevano le gavette, usando l’arcolaio poi venivano messi in un enorme mastello insieme al detersivo di allora, che era la lisciva, ottenuta con cenere setacciata e filtrata con acqua bollente. Il periodo in cui tutto questo avveniva, coincide con i primi cinquant’anni del secolo scorso.

In seguito venivano lavate in acqua limpida al macero o nel canale. Quando l’acqua era fredda si metteva dentro un secchio per tenere le gambe all’asciutto, ma bastava una mossa falsa per rovesciarsi e, allora ci si bagnava dalla testa ai piedi! Un gran divertimento per chi lavorava accanto.

Dalle gavette il filo passava nei cannoni per mezzo dell’incannatoio, poi seguiva l’orditura, che non era una parte facile che s’imparasse dall’oggi al domani, tant’è che richiedeva la presenza di una vera esperta perché, commettendo errori o montando in modo sbagliato l’ordito dei telai, si perdevano ore preziose e bisognava ricominciare daccapo. Il tempo era prezioso all’epoca, tanto quanto oggi, la canapa era una coltura da reddito, non andava sprecata o rovinata. Con l’orditura si programmava la lunghezza e la larghezza della tela che si misurava in colli e arrivava, a volte, anche a 30 metri di lunghezza. Gli attrezzi che entravano in funzione erano per ordine: la scaletta, la spatola e gli orditoi. La scaletta era, come dice la parola stessa una scala con dei fili di ferro al posto dei pioli, in essi venivano inseriti i cannoni ed era collocata sopra le due sedie.

La spatola era un’assicella con tanti buchini e l’impugnatura da un altro. Gli orditoi si potrebbero paragonare a due traverse con tanti cavicchi sporgenti in avanti che venivano appesi verticalmente ad una parete con una distanza di otto metri l’uno dall’altro. I fili venivano fatti passare dai cannoni attraverso i buchi della spatola, si annodavano e si fissavano ai cavicchi, a zig zag, dall’altro in basso, dal basso verso l’alto. Raccolte le matasse sulle spalle a catena si procedeva alla tessitura. Osservando una donna quando lavorava al telaio dava l’impressione di essere un tutt’uno con la sua macchina. Il pettine pressava la trama ad ogni giro di spola con dei colpi secchi sincronizzati sul saliscendi del pedale e i botti si susseguivano regolarmente come fossero programmati da un computer, mentre le aiutanti formavano le cannette e imbozzavano i fili per renderli più scorrevoli con una specie di farina di mais. Una brava tessitrice con alcune aiutanti poteva tessere quattro o cinque metri di tela al giorno. 

A seconda dell’uso finale variavano i tipi di canapa.

Se si voleva una canapa fine, per confezionare la biancheria di tutta la casa, essa veniva colta appena fiorita. Se si volevano filamenti forti per fare le tele delle barche si aspettava che la pianta fosse più robusta, mentre se si voleva ricavare delle corde, la si lasciava invecchiare. 

I funai erano abilissimi artigiani che realizzavano le corde attorcigliandole in un numero variabile di fili, a seconda della grossezza, aiutandosi solo con dei paletti di legno simili a rastrelli coi denti larghi e indietreggiando per svolgere questo tipo di operazione. C’era anche un operaio vicino all’aspro che controllava che non si sovrapponessero e aggiungeva i fili necessari.

C’era anche la parte peggiore della canapa, quella veniva separata durante il “pettinamento” e se ne ricava la stoppa, un materiale molto richiesto per vari lavoretti, come l’uso, che ne fanno ancora oggi gli idraulici, la avvitano intorno ai tubi. Un tempo erano di stoppe anche le parrucche degli attori di teatri o dei carnevalanti durante le sfilate o i balli in maschera.

Quindi, c’erano i sulfen così venivano chiamati gli antenati dei fiammiferi, venivano costruiti con uno stecco di canapa imbevuto nello zolfo. Con i sulfen, in italiano zolfanelli, non era possibile innescare la fiamma, ma servivano per provocarla attingendo dal barlume delle braci che restavano nel focolare al mattino dopo che di notte erano state ricoperte dalla cenere. Erano anche utili per andare in cerca del fuoco nelle abitazioni vicine caso mai il proprio si fosse spento. C’erano pure i venditori ambulanti di zolfanelli, detti i sulfaner. Essi oltre al lavoro al mercato giravano i paesi bussando alle porte delle case ed insistendo per farsi aprire soprattutto dalle donne sole, intentando un approccio libertino e proponendo baratti e anche altri tipi di commercio, da qui il detto: “An’ t fer insulfaner” cioè non farti imbrogliare.

Questi sono soltanto alcuni dei prodotti che si ricavavano dalla canapa, oggi sappiamo che sono molti di più, qualcuno parla addirittura di 50 mila. I modi di lavorazione sono cambiati, ora tutto è meccanizzato e anche la tessitura avviene nelle fabbriche, seppur qualche azienda usa ancora vecchi telai ricevuti in dono, ereditati o recuperati nelle cascine e rimessi a nuovo, insegnando ai giovani il loro impiego e ottenendo dei tessuti bellissimi e di gran voga in tutte le case.

Sono molto famosi gli zainetti dalla tonalità naturale con sopra la fogliolina di canapa di un bel verde intenso. Sono ruvidi al tatto ma molto robusti e capienti. Vengono anche tinti con colori naturali dal viola al nero per adattarsi alle mode del momento. Dalla fibra si ricava un filo di alta qualità e se negli anni ’50 era stata battuta dal cotone oggi si prende la rivincita. Il cotone esige molta più acqua quasi 1500 litri per ottenere un chilo di fibra, alla canapa ne bastano 500. La canapa è quattro volte più resistente e non necessita né di pesticidi né di erbicidi. Il cotone richiede il doppio della terra per ottenere la stessa produttività.

La canapa è una risorsa naturale rinnovabile, basti pensare che un ettaro coltivato, cresce in tempi brevissimi e fornisce la quantità di fibre quadrupla di un ettaro di bosco. Per ogni tonnellata di carta di canapa si stima che si possano salvare dodici alberi adulti. Investire in canapa conviene.

L’oro verde di domani, è fuor di dubbio. Ma il Domani è già qui.

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