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Il voto Usa è un altro passo verso la legalizzazione. Il momento del coraggio è arrivato

Chiariamolo subito, a beneficio dei nostri lettori e di chi tende a semplificare troppo: con il voto favorevole al MORE Act (Marijuana Opportunity Reinvestment and Expungement Act) gli Stati Uniti non hanno legalizzato l’uso ricreativo della cannabis a livello federale.

In primo luogo perché il progetto di legge – che parla, appunto, di depenalizzazione e riclassificazione, con un occhio importante ai risvolti economici e sociali ad esse collegati – non introduce le legalizzazione tout-court. E poi perché, come noto, il sistema bicamerale americano prevede che una proposta per diventare legge venga votata da entrambi rami del congresso (Camera e Senato, proprio come in Italia).

Torneremo tra poco sulle reali possibilità che ha il MORE Act di essere definitivamente approvato, ma ciò che non possiamo non sottolineare è l’enorme valore simbolico che questo voto ha già portato con sé e l’impatto che potrà avere nel dibattito globale sulla legalizzazione. In due giorni, prima con il voto dell’Onu che ha riconosciuto le proprietà terapeutiche della cannabis e poi, appunto, con il voto di Washington, il movimento antiproibizionista ha piazzato due colpi clamorosi.

Due prime volte di proporzioni storiche. E mentre a Vienna la CND tirava fuori la cannabis dalla Tabella IV delle sostanze stupefacenti più pericolose istituita nel 1961, nella capitale americana 228 deputati (con 164 contrari) votavano per allentare le restrizioni introdotte nel 1970, all’apice della disastrosa e fallimentare war on drugs.

Si tratta di un passaggio che potrebbe rivelarsi decisivo per la battaglia di tutti coloro che hanno a cuore il destino della legalizzazione nel mondo, un messaggio forte e chiaro che i democratici americani hanno mandato a tutti.

Quel che succederà adesso negli Usa sembra scritto. Solo cinque deputati repubblicani hanno votato a favore del MORE Act e la posizione del GOP, su questo, è nota. Il voto del progetto di legge, per loro, non è una priorità, specialmente in questo momento in cui – a detta loro – l’impegno del congresso deve essere unicamente dedicato alle misure da mettere in campo per contrastare l’emergenza sanitaria e le conseguenze di essa dal punto di vista economico.

In realtà il “benaltrismo” repubblicano cela una sensazione di imbarazzo nel partito. I sondaggi, infatti, dicono che il 68% dei cittadini americani è favorevole alla legalizzazione della cannabis e tra questi la minoranza repubblicana – come dimostrato anche dai recenti referendum in Stati storicamente rossi come il Montana, il South Dakota, l’Arizona (diventata blu) e il Mississippi – è sempre più numerosa.

Più che una critica sul merito del provvedimento, infatti, dai repubblicani è arrivata una critica sul metodo e sui tempi. La questione è vitale, perché è molto probabile che il Senato americano sarà ancora a maggioranza repubblicana. E in questo caso difficilmente il voto sul MORE Act verrà calendarizzato a breve.

Probabile, ma non sicuro, però. Al momento, i repubblicani mantengono la maggioranza del Senato (composto da 100 membri) con 50 seggi contro i 48 dei democratici. La data da segnare sul calendario è quella del 5 gennaio, quando si svolgeranno i ballottaggi per decidere i nomi dei due senatori che andranno ad occupare i seggi spettanti alla Georgia. Se i democratici dovessero riuscire a vincere entrambi i ballottaggi, allora avremmo un’Aula esattamente divisa a metà, ma in questo caso l’ago penderebbe dalla parte dei democratici con il voto decisivo della vicepresidente Kamala Harris (storica antiproibizionista).

La sfida è difficile, ma non impossibile. La Georgia è stata recentemente strappata dai democratici alle elezioni presidenziali, dopo decenni di dominio repubblicano. Se verrà confermata l’alta affluenza, nulla può essere dato per scontato.

Indipendentemente da come andrà a finire questa vicenda, è evidente a tutti che ormai la strada è tracciata e indietro non si torna. Dai democratici Usa arriva una lezione che dovrebbe essere presa a modello dai tanti politici progressisti europei (ed italiani in particolare) che ancora cedono a vecchi calcoli e credono a vecchie logiche di opportunità o di consenso, ormai superate da tempo. Il momento del coraggio è arrivato. Se non ora, quando?

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